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Diritti civili, cosa
(non) insegna la storia

Diritti civili, cosa <br> (non) insegna la storia

di Giovanni Bernardini

(16 febbraio 2016) Per chi prova a fare della storia il proprio mestiere, la comparazione tra eventi e processi distanti nel tempo è una deformazione professionale incurabile, al pari di chi lavora di martello tutto il giorno e finisce per vedere chiodi ovunque. Non si tratta però di un esercizio inutile, purché non si ricerchino le abusate “ripetizioni della storia” ma ci si dedichi a riscontrare mutamenti e permanenze di fronte a sfide e problemi complessi. Difficile dunque assistere alla controversia che dentro e fuori le istituzioni sta suscitando il decreto Cirinnà sulle unioni civili senza che sorgano spontanei dei paragoni con altre battaglie per i diritti civili nella storia della Repubblica.
Tra le più vecchie, quella assimilabile per estensione del coinvolgimento e per radicalità delle posizioni ebbe luogo nel 1974 in occasione del referendum abrogativo della legge Baslini Fortuna, che aveva introdotto il divorzio nell’ordinamento italiano. La vicenda fu il risultato di un compromesso: in parlamento la Democrazia Cristiana non ostacolò l’approvazione della legge, che pure rifiutava, per non produrre fratture nella coalizione di governo; essa però si riservava la possibilità di adire all’istituto referendario e lasciare così l’ultima parola al corpo elettorale. Appaiono già evidenti una differenza e una similitudine tra le due situazioni. In quel caso si trattò anche di una resa dei conti tra schieramenti abbastanza definiti e riconoscibili: difficilmente si può dire lo stesso oggi, quando all’interno degli stessi partiti si manifestano posizioni così distanti tra di loro. Non è un caso che tali differenze siano parse più ampie nei due partiti che presentano novità sostanziali rispetto al passato: da un lato il PD, suo malgrado ancora un contenitore in cerca di un chiaro profilo politico; dall’altro il Movimento Cinque Stelle, la cui compagine parlamentare di “illustri sconosciuti”, selezionati con metodi diversi dal tradizione apprendistato politico, rispecchia di un’eterogeneità di base che non accenna a consolidarsi e vive una dualità talvolta grottesca con i “padri padroni” lontani dal parlamento. Difficile dire se si tratti di un nuovo stadio “liquido” della forma partito o piuttosto di una transizione verso una nuova e inedita: tuttavia la conflittualità generata anche attorno alla vicenda sembra il pretesto per una nuova fase di riposizionamenti già in corso. Certamente la disciplina di partito di allora è oggi un lontano ricordo, nel momento in cui le rese dei conti precedono gli appuntamenti decisivi piuttosto che seguire il risultato finale. D’altro canto, a ricordare il 1974 è la trasversalità rispetto agli schieramenti pro o contro il provvedimento: all’epoca la legge recava la firma dei proponenti che provenivano l’uno dal PSI, impegnato nel governo di centrosinistra, e dal PLI, che a quella formula si era fieramente opposto accentuando la propria collocazione a destra. Sotto questo profilo la complessità dello scenario attuale non rimanda tanto a una crisi del partito quanto a un dato connaturato ai dibattiti sui diritti civili, ma anche a una nota positiva di vitalità della rappresentanza politica contro il rischio che i gruppi parlamentari siano la mera emanazione dei leader.
Di questi ultimi colpisce il ben più scarso impegno personale rispetto al precedente storico. Pochi o nessuno tra i segretari dei maggiori partiti hanno preso posizioni nette: persino Matteo Salvini, impegnato a estendere il suo consento oltre il bacino tradizionale, è entrato poco nel merito se non per rimarcare che le priorità del paese sarebbero ben altre. Certamente poco si è esposto il premier Renzi, anche sulla più ardua questione definita dalla pessima etichetta “utero in affitto”, su cui ha invocato una non meglio chiarita “battaglia culturale” da rimandare al dopo voto. Che entrambi abbiano in testa i precedenti storici è discutibile: di certo però quello del 1974 racconta del Segretario DC Amintore Fanfani che impegnò tutto il proprio prestigio a sostegno della battaglia referendaria. La cocente sconfitta lo portò in breve termine all’esautorazione, soprattutto per opera dei tanti che, anche all’interno del partito cattolico, non solo erano meno persuasi della giustezza di quella battaglia ma avevano considerato con maggiore realismo gli umori del paese. Che le radici politico-culturali di Renzi siano per contigue (anche sul piano geografico) a quelle del leader aretino, è indiscutibile; che egli voglia legare le proprie sorti alla logica binaria “approvazione/respingimento” di un provvedimento che pure non lo persuade del tutto, sembra ormai escluso.
Se il referendum sul divorzio evidenziò la perdita del polso del paese da parte della DC, la battaglia che lo precedette portò alla ribalta la crescente insofferenza nei confronti delle ingerenze clericali. Il dibattito subì uno scivolamento verso l’irrigidimento delle contrapposizioni non tanto per le prese di posizione nel merito da parte della gerarchia cattolica, ma sugli aspetti legali e procedurali: in quel caso si trattò del richiamo al rispetto delle normative sul divorzio contenute nei Patti Lateranensi. Questo segnò per molti versi di un punto di non ritorno che indispettì anche quei partiti, come il PCI, inizialmente più tiepidi nei confronti del referendum per il rischio di alienarsi il consenso delle frange cattoliche progressiste. Mutatis mutandis, a generare nuove contrapposizioni insanabili oggi non è di nuovo il merito della questione, quanto la presunta esortazione del Cardinale Bagnasco a utilizzare il voto segreto per decidere le sorti della Cirinnà: sebbene le circostanze della dichiarazione siano da chiarire, è significativo come essa abbia sollevato le reazioni ferme anche di uomini delle istituzioni tendenzialmente misurati, come il Presidente del Senato, che l’hanno stigmatizzata come un’indebita invasione di campo.
Probabilmente però il parallelo più evidente è quello tra l’arretratezza del dibattito politico rispetto allo stadio cui è giunta la società civile che essa dovrebbe regolare: come allora, si trattava innanzitutto di sanare situazioni esistenti di “separati in casa”, condannati talvolta a vivere condizioni di vita persino pericolose. Questo non riguarda soltanto la questione delle coppie di fatto omosessuali, ma la statistica di questi giorni secondo cui ogni settimana nascono due italiani attraverso la pratica dell’ “utero in affitto”, praticata fuori dai confini e talvolta con rischi legali e sanitari. Se la proposta diventerà legge, sarà possibile a breve valutare la vastità del fenomeno dai numeri, così come negli anni successivi al 1970 persino i più avversi al divorzio dovettero constatare che le statistiche erano ben lontane dal manifestare la paventata “fine della famiglia tradizionale”.
(da mentepolitica.it )

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