Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Un Paese che sta
perdendo la bussola

di Paolo Pombeni

(14 giugno 2016) Lasciamo agli esperti le analisi sui flussi e sulle statistiche elettorali e cerchiamo di ragionare sul significato che si può attribuire a questo test elettorale. E’ un test limitato, condizionato dalla sua natura amministrativa, ma ciò nonostante assai simbolico.

Il primo dato è la crisi delle tradizionali appartenenze partitiche. Di fatto, se lasciamo da parte i Cinque Stelle di cui diremo dopo, tutti hanno perso voti, in una certa misura per trasmigrazioni da una parte all’altra, in misura maggiore per un ulteriore incremento dell’astensionismo. Dipende dal fatto che c’è una fuga dalla politica? Ci permettiamo di dire che dipende molto di più dal fatto che la politica ha poco da dire. Non c’è stato in queste elezioni da parte di nessuno il lancio di uno o più grandi temi che guardassero al futuro. Si è assistito solo o a geremiadi sulla inadeguatezza che ciascuno rinfacciava ai propri avversari (non siete competenti, non siete onesti, non volete bene ai poveri, vi preoccupate solo dei vostri interessi, e via elencando), o a generici appelli «all’impegno all’ascolto» della gente, come se fosse la gente ad avere già pronte le soluzioni alla crisi in corso e non invece si aspettasse di sentirsele illustrare da coloro che chiedevano il suo voto.

La conseguenza è stata che si è assistito ad una specie di competizione che gli americani sintetizzano con la battuta «comprereste da quest’uomo [o da questa donna] un’auto usata?». Una scelta che si fa sulla base della più o meno buona impressione, della maggiore o minore capacità di ispirare fiducia di un certo candidato, con l’ovvia aggiunta che ciò è più o meno favorito dai pregiudizi che si nutrono verso le alternative in campo.

Si dice che dipenda dal fatto che le elezioni amministrative, avendo la scelta diretta del sindaco, necessariamente si incentrano sulla personalità degli aspiranti. E’ vero, ma va subito notato che peraltro dove ci sono dei partiti o dei movimenti che dovrebbero tenere conto di questo dato non è che si siano visti grandi sforzi in questa direzione. Almeno nelle città che sono all’onore delle cronache i candidati erano tutti espressione di circoli molto ristretti che si promuovono tra loro senza alcuno sforzo di selezionare personalità in grado di sfondare. Siamo molto lontani dal modello della «macchina politica» che cerca fuori di sé il candidato con maggiori chance di vittoria e che poi lavora per sostenerlo. Non è stato vero neppure per il fenomeno più nuovo, i Cinque Stelle, che hanno scelto dovunque figure al loro interno. Poi, magari, hanno come a Roma avuto fortuna per ragioni di contesto, oppure sono incappati nella figura adatta come a Torino. Altrove però è stato sostanzialmente un fallimento con personaggi di apparato, che hanno fallito l’obiettivo dei ballottaggi persino dove poteva essere a portata di mano come a Bologna.

Quel che però ci pare di grande interesse e che non abbiamo visto ricordato, è che per tutti è valsa l’assenza di una «regia» larga ad opera dei partiti nell’impostazione delle singole campagne. Ovvio che poi ognuna dovesse avere le sue declinazioni locali, ma ciò che le avrebbe rafforzate, dato il peso non irrilevante dei media nazionali nel formare l’opinione pubblica, era la possibilità di ricondurle tutte ad una medesima prospettiva sul futuro della nazione, alla scommessa che si stesse lavorando nel quadro di una grande alleanza per dare al paese le opportunità di vincere la sfida con la crisi in atto.

Nulla di tutto questo è emerso, anzi al contrario si è assistito al trionfo dei particolarismi e delle faide interne. Il caso più eclatante è stato ovviamente quello del centrodestra dove era sin troppo evidente che la sfida correva sulla distinzione fra il parlare rude «alla Le Pen» e l’invocare le virtù, più che altro mitiche, dei «moderati». In sostanza misurarsi fra un ricambio di classi dirigenti guidato dagli amici delle ruspe ed un mantenimento dei tradizionali quadri che avevano animato il ventennio berlusconiano.

Peraltro non è che nel PD le cose siano andate molto diversamente: anche qui è stato tutto un rincorrersi di quadri della vecchia e della nuova «ditta», ormai entrambe omologate nella difesa dei rispettivi territori acquisiti (vedi il caso di Napoli, dove si è andati allegramente al fallimento).
Naturalmente per non stare a guardare solo l’omologazione nel declino dei due poli della seconda repubblica, ci si è rifugiati nella tesi del nuovo «tripolarismo», per tenere conto della presenza davvero ingombrante del M5S che si situa ormai più o meno allo stesso livello di consistenza dei due vecchi poli. A stare ai dati delle amministrative non è esattamente così. Se si eccettuano i casi di Roma e Torino, i pentastellati non sono affatto in una posizione di quel tipo e in più sono stati presenti solo in un numero limitato di competizioni territoriali. Ciò naturalmente non significa che il loro peso non sia al momento rilevante, soprattutto a livello di capacità di raccolta del consenso, ma bisogna pur tenere conto che al momento sono ancora sia una classe dirigente acerba che non ha collezionato grandi successi a livello di gestione della sfera decisionale, sia un movimento che rimane ingabbiato da una retorica a mezzo fra l’utopismo e l’apocalittica. Sono naturalmente cose che potranno essere superate dando vita ad un movimento pienamente capace di portare alla sostituzione delle classi dirigenti tradizionali (anche in termini generazionali), ma è altrettanto possibile che ad un certo punto tutto si dissolva col venir meno del momento favorevole a quella retorica.

E’ la fase politica di un paese che sta perdendo il proprio orientamento. Non un bel momento, ma per superarlo bisogna che se ne prenda atto.

(da mentepolitica.it)

(© 9Colonne - citare la fonte)