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Dall’Ungheria alla Colombia
i rischi del referendum

Dall’Ungheria alla Colombia <br> i rischi del referendum

di Giovanni Bernardini

(12 ottobre 2016) Due storie profondamente diverse, che arrivano da luoghi separati da poco meno di diecimila chilometri. Eppure, a ben guardare, due storie che presentano similitudini interessanti e preoccupanti da non sottovalutare per il bene di tutti, a qualunque latitudine.

L’inizio di ottobre è stato segnato dal più capzioso dei referendum, organizzato dal Primo Ministro ungherese Orban per consentire al suo popolo di esprimersi – ovviamente per rigettarlo – sul sistema delle quote stabilito in sede UE per la ricollocazione dei rifugiati nel continente. L’intera operazione si è risolta in un imprevisto e fragoroso fiasco: una partecipazione al voto ben al di sotto del 50% ha portato all’annullamento del risultato, seppure il 98% dei voti abbia espresso il consenso alle intenzioni del governo. Col consueto piglio autoritario, Orban si è affrettato a ridimensionare il significato dell’astensione, a dichiararsi vincitore, ad avvisare Bruxelles che dovrà comunque tenere in conto l’espressione della volontà del popolo ungherese, e ad annunciare che introdurrà comunque una riforma costituzionale per riaffermare l’esclusiva competenza statale sulle quote di accoglienza. Una riforma che un alto rappresentante del suo partito ha giustificato con la necessità di difendere anche i milioni di ungheresi che hanno disertato le urne perché, evidentemente, non hanno compreso la gravità della posta in gioco. Insomma, per dirla col buon vecchio Bertolt Brecht, “Il Comitato Centrale ha deciso: bisogna nominare un nuovo popolo”.

Un quorum minimo non era invece previsto nella consultazione popolare promossa dal Presidente colombiano Juan Manuel Santos per sancire il risultato di quattro anni di negoziati con le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). La richiesta ai cittadini colombiani era di approvare o respingere gli accordi che, come auspica larga parte della comunità internazionale, metterebbero fine a quattro decenni di una delle più dure e sanguinose guerriglie dell’America Latina. Senonché, anche in questo caso contro ogni pronostico, la partecipazione al voto (37%) si è mantenuta al disotto dei già bassi standard colombiani e il rigetto dell’accordo l’ha spuntata per soli 60 mila voti su 56 milioni di abitanti; questo nonostante alla vigilia i sondaggi riportassero un favore all’accordo superiore al 60% e una percentuale ancora maggiore di cittadini convinti che non esista alternativa al negoziato praticabili sul piano militare. Certamente il Nobel per la Pace conferito a Santos soltanto pochi giorni dopo è parso un auspicio per il futuro e un invito a non vanificare quanto raggiunto finora; ancor più rassicuranti sono state le prime dichiarazioni da parte delle autorità di Bogotá e dei comandi FARC sulla volontà di proseguire il cessate il fuoco. È però prevedibile che i prossimi mesi saranno occupati dal paradossale obiettivo di aggirare il risultato della consultazione per tornare alla meta già raggiunta.

Quale significato comune dare ai due risultati? Per quanto la comprensione delle ragioni dell’astensione equivalga all’esercizio più aleatorio che esista, ovvero interpretare la voce di chi non ha parlato, è lecito supporre che una parte consistente degli elettori, e proprio quella più vicina alle intenzioni governative, si sia sottratta a un esercizio che percepiva come ininfluente. Non già perché gli oggetti del contendere fossero di scarso interesse: al contrario è difficile immaginare questioni più “calde” del controllo delle frontiere e della ratifica di una pace. Per intenderci, siamo agli antipodi rispetto all’alta astensione registrata in casa nostra al recente referendum sulle estrazioni petrolifere, percepito (a torto o a ragione poco importa) come una questione tecnica e locale. È probabile che gran parte degli elettori colombiani non abbia ritenuto di doversi esprimere per confermare ciò che con evidenza considera già acquisito e inevitabile, mentre il voto contrario ha corrisposto a una presa di posizione politica nella disfida tra Santos e il suo predecessore Uribe (prima mentore, ora acerrimo avversario) che trascendeva il contenuto del quesito in esame. Allo stesso modo, si può pensare che in molti in Ungheria non si siano recati alle urne persuasi che il loro voto non avrebbe cambiato poi tanto delle regole decise su base sovranazionale (come lo stesso Orban sa bene); e che, indipendentemente dalla loro opinione sul quesito, si siano sottratti al plebiscito personale inscenato dal Primo Ministro, compresi molti elettori del partito di estrema destra Jobbik, che pure in principio avrebbero dovuto supportare la battaglia contro Bruxelles e l’immigrazione. I due referendum mettono dunque in guardia contro la personalizzazione eccessiva dei quesiti referendari, che finiscono per sottoporre l’espressione popolare a un processo di eterogenesi dei fini con esiti imprevedibili e destabilizzanti. E certamente essi richiamano le classi politiche a un maggiore senso di responsabilità per le loro scelte e azioni, senza che l’approvazione (o il rifiuto) popolare si trasformi in un’ossessione, in un alibi o nella richiesta di “carta bianca”. E infine i due casi invitano a riflettere sul rischio che la proliferazione della logica referendaria venga fatta coincidere sempre di più con un’interpretazione semplificata, fuorviante e in definitiva falsa della democrazia come la mera espressione di un “Sì” o di un “No” a un quesito strumentale, o peggio ancora a un leader.

(da mentepolitica.it)

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