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Referendum, una partita
che si sta complicando

Referendum, una partita <br> che si sta complicando

di Paolo Pombeni

(27 ottobre 2016) Che il referendum costituzionale non sarebbe stato una passeggiata lo si poteva anche immaginare. Era però lecito sperare che tutto fosse contenuto in termini almeno relativamente ragionevoli. Qualche sbavatura sul versante degli irriducibili ci stava. Un’ansia generalizzata di trasformare questa prova in un duello all’ultimo sangue fra la vecchia guardia e un fronte innovatore che troppi vorrebbero schiacciato sul destino personale di Renzi non è una prova di salute da parte del sistema Italia. Ne abbiamo sentite di tutti i colori e alcune affermazioni tentano di far concorrenza agli autori delle satire televisive: come definire diversamente Berlusconi che si presenta come timoroso di una dittatura dietro l’angolo, o Bersani che preferisce l’alleanza con Grillo a quella con Verdini?
Una modesta riflessione su quel che è accaduto ci ricorderebbe che tutte le riforme che Berlusconi ha cercato di far passare avevano in mente il rafforzamento del peso del premier, sino al punto da sostenere l’introduzione di un sistema presidenziale (cosa che continuano a fare molti sostenitori del no, lui incluso, come prospettiva per il dopo referendum). Una altrettanto modesta consapevolezza delle regole delle alleanze politiche spinge a chiedersi perché mai si dovrebbe preferire l’alleanza con uno che ha la forza per espropriarti della tua leadership a quella con un gruppetto che tale concorrenza non è proprio in grado di esercitarla.

Sono notazioni di banale buonsenso, ma non costituiscono neppure vagamente il nocciolo della criticità con cui ci stiamo misurando. Qui il tema centrale è la situazione molto difficile che il nostro paese come tale si trova davanti e basterà ricordare due fronti: il primo è la gestione della congiuntura economica, il secondo è il nostro rapporto con l’Unione Europea.

Su entrambi i fronti un governo incalzato da un attacco concentrico e feroce delle più disparate forze finisce per necessità di cose a inasprire la propria posizione ed a difendersi senza andar per il sottile sui mezzi a sua disposizione. Lo si è visto nella elaborazione della manovra di bilancio, che è già di suo il terreno più scivoloso su cui può muoversi un esecutivo. Nelle attuali circostanze era impossibile non provasse a mettere in campo una manovra espansiva, anche a costo di qualche cedimento ad interventi un po’ populistici. La questione non sono però tanto questi cedimenti, quanto il fatto che è molto difficile che gli interventi di stimolo all’economia sortiscano i loro effetti se permane il clima di guerriglia generale in cui siamo immersi.

Difficilmente si avviano progetti che comportano inevitabilmente qualche rischio se non si ha fiducia che la situazione si stabilizzi e che dunque dia garanzie per un loro successo. In mancanza di questa fiducia nel futuro gli investimenti non ci saranno, ma piuttosto si tenderà a trarre profitto dalle opportunità che propone la manovra di bilancio per il 2017 senza esporsi a rafforzare queste imprese con investimenti propri. E’ questo che rende l’intervento pubblico poco produttivo, perché se gli togliamo l’effetto di moltiplicatore finisce per ridursi a spesa in deficit. Di nuovo: non occorrono particolari conoscenze di scienza politica od economica per capire che la stabilizzazione non può essere prodotta da nessun governo da solo, a meno che non decida di asfaltare le opposizioni: il che non solo non è facile, ma è molto rischioso ove anche solo dovesse seriamente provarci.

Una riprova di queste banali osservazioni la si trova nell’analisi dello scontro che oppone il nostro paese al sistema dell’Unione Europea. In un contesto in cui ovunque crescono i partiti anti europei, in cui gli egoismi nazionalistici prosperano, in cui molti grandi paesi hanno il fiato sul collo di difficili tornate elettorali, vengono meno i freni politici alla naturale tendenza all’arroganza che hanno le grandi burocrazie come quelle che si sono insediate a Bruxelles. E’ una miscela esplosiva, perché ovviamente i funzionari della Commissione, che già si vedono in continuazione messi in discussione, debbono riaffermare il loro potere e come spesso succede lo fanno cercando un bersaglio facile. L’Italia è in questo momento l’incarnazione ideale di un bersaglio facile.

Innanzitutto perché contro di noi giocano gli eterni pregiudizi che ci considerano un paese di pasticcioni, incapaci di rigore, inconcludenti quando si deve mettere ordine nelle proprie debolezze. Sarebbe ipocrita non ammettere che c’è una attiva collaborazione da parte di buona parte della nostra “intelligentzia” nel rafforzare questi pregiudizi. In secondo luogo perché l’Italia ha un problema non da poco, che la mette in una condizione di inferiorità: il suo debito pubblico è mostruoso, cresce in continuazione e per le sue dimensioni in caso di default è in grado di mettere in difficoltà la moneta comune europea a cui partecipa. In terzo luogo perché il governo attuale è oggettivamente di fronte al rischio di una delegittimazione e dunque questo spinge gli avversari a tenerlo sulla corda finché non si capirà come va a finire: poi si vedrà che fare.

E’ comprensibile che in un contesto del genere sia difficile mantenere i nervi saldi e ragionare al di là del contingente, ma è quello che è assolutamente indispensabile fare. Chi non lo capisce e punta a sfasciare la situazione si assume una responsabilità storica.

(da mentepolitica.it)

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