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Bambini stranieri
e rendimento scolastico

Bambini stranieri <br> e rendimento scolastico

di Chiara Sità

(8 gennaio 2017) “Io l’anno prossimo avrei dovuto andare in pensione, sa? Poi quest’anno abbiamo cominciato ad avere alunni immigrati nella classe. Io insegno storia. E mi sono detta ma che occasione questa, spiegare l’Europa medievale, la religione, a ragazzini che hanno categorie completamente diverse dalle nostre, mi costringerà a ripensare tutto il mio modo di fare storia. Ho pensato: è un momento importante, non posso perdermelo! E ho deciso di rinviare la pensione”. Sono le parole di un’insegnante di scuola media di una cittadina del nord Italia.

Di tutt’altro avviso sembrano i titoli di giornale che hanno campeggiato recentemente sul Corriere Milano, seguito da altre testate nazionali e locali: “Scuola, le classi perdenti: il rendimento cala se gli immigrati sono oltre il 30%”. I risultati dell’indagine citata (effettuata dal Politecnico di Milano per il Corriere) rilevano che nella scuola primaria le medie ai test Invalsi sono più basse per le classi in cui sono presenti più del 30% di bambini stranieri. La definizione di questa popolazione e la narrazione giornalistica su questi numeri sollevano alcune questioni.

Innanzitutto, con la definizione “stranieri” ci si riferisce a bambini non in possesso della cittadinanza italiana, mettendo quindi nello stesso calderone due categorie molto diverse, quella dei bambini nati in Italia da genitori non italiani, quindi che parlano a casa una lingua diversa dall’italiano ma che hanno già frequentato nidi e/o scuole in Italia (che sono circa il 70% del totale degli stranieri), e bambini che sono arrivati recentemente in Italia e quindi stanno a tutti gli effetti imparando, a scuola, a leggere, scrivere e parlare la lingua italiana.

L’impatto della presenza di questi bambini sulla performance di una classe, in assenza di altre informazioni, non consente di fare nessuna diagnosi. Più accuratamente, il recente report internazionale PISA sui quindicenni ha considerato l’effetto dello status socio-economico. Misurando le differenze di performance in materie scientifiche, ha evidenziato che in Italia le scuole con una più alta percentuale di stranieri hanno risultati migliori di quelle con bassa percentuale di stranieri se si tiene conto del livello socio-economico degli studenti. In altre parole, ciò che spiega le differenze di performance non è la concentrazione di alunni stranieri a scuola, ma la concentrazione di studenti che provengono da ambienti svantaggiati socio-economicamente. Però si sa, l’allarme stranieri produce titoli di giornale e dibattito assicurato, l’allarme povertà molto meno.

Un’altra variabile che dovrebbe essere presa in considerazione in questo tipo di analisi è costituita dalle azioni della scuola per ridurre le differenze di rendimento tra chi a casa parla la stessa lingua usata a scuola e chi no. Su questo aspetto, l’articolo del Corriere dichiara che “buone pratiche ed insegnanti esperti non bastano” a porre un freno agli effetti della presenza dei bambini stranieri. L’affermazione è di una certa portata, considerando che in Italia solo il 15% dei bambini che a casa parlano un’altra lingua beneficia di almeno 2 ore settimanali di supporto all’apprendimento dell’italiano; non si comprende quindi su quale basi si affermi l’insufficienza delle “buone pratiche” – e di quali pratiche si sta parlando.

Che cosa ci dice quindi l’asserzione che una certa soglia di presenza di bambini stranieri “abbassa il rendimento delle classi”? Poco o nulla, sia perché non disponiamo di dati utili alla diagnosi, sia perché questa comunicazione non mette a fuoco, se non in modo tangenziale, il problema reale: la segregazione scolastica, problema di ordine politico (perché sono le classi miste, e non quelle segregate, a produrre inclusione) e didattico, perché i bambini (tutti) beneficiano dell’apprendimento che avviene in contesti diversificati e bilanciati in base a molteplici criteri - che non coincidono con solo il possesso o meno della cittadinanza italiana.

Un ambiente di apprendimento equo è diversificato per background socioeconomico e culturale di provenienza dei bambini,nazionalità o se rilevante gruppo etnico, padronanza della lingua, abilità/disabilità, dove possibile anche performance scolastiche. Se non è sempre possibile per le scuole tenere sotto controllo tutti questi elementi, bisogna però rilevare che la segregazione scolastica non è prodotta dalle scuole ma è il frutto della scelta delle famiglie, agevolate da un sistema di concorrenza tra istituti, di non iscrivere i propri figli nella scuola di quartiere proprio sulla base della considerazione che “ci sono troppi stranieri”, oppure alla ricerca di scuole private caratterizzate da una maggiore omogeneità di classe sociale. La narrazione proposta dal Corriere sui bambini che rendono “perdenti” le classi ai test Invalsi non fa che alimentare pregiudizi diffusi e riprodurre – in modo diametralmente opposto all’insegnante citata all’inizio - l’identificazione di “straniero” con “portatore di svantaggio”.
Va precisato, infine, che i test Invalsi non sono una misura esaustiva della performance scolastica. Essi, piuttosto, servono proprio a tenere monitorato il livello di accesso ad alcune competenze fondamentali che il sistema scolastico deve cercare di garantire a ogni bambino. Più che un elemento di allarme sui bambini stranieri, quindi, questi risultati sono indicatori dello stato di un processo di inclusione in cui le azioni della scuola, e le scelte dei genitori, hanno un ruolo fondamentale. Come è stato recentemente per il caso dei dati sul collegamento (rivelatosi infondato) tra sbarchi di migranti e criminalità, sembra che in Italia si ricorra all’uso della categoria “stranieri” per creare titoli ad effetto, alimentare allarmismi e soprattutto evitare di affrontare la complessità delle trasformazioni che interpellano la società e, in questo caso, la scuola.

(da mentepolitica.it)

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