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Governo avanti tutta
(ma confusamente)

di Paolo Pombeni

(29 novembre 2019) Della politica italiana non si sa più cosa dire. La destra tira dritto per una strada di imposizione della sua presenza, ma senza capacità propositiva. Berlusconi è sparito, perché quello che appare ogni tanto per amore della presenza televisiva è un suo zombie e i suoi uomini e donne non riescono a guadagnarsi una qualche rilevanza. Nella Lega ogni spazio deve essere lasciato a Salvini. Anche chi come Giorgetti avrebbe cose sensate da dire è relegato ai margini. La Meloni cerca di ricavarsi qualche visibilità, guadagna consensi, ma non propone nulla. Se si guarda questo panorama viene da chiedersi come faccia la destra a conservare le sue posizioni nei sondaggi.

Il fatto è che non è la destra ad essere forte, ma sono le alternative ad essa che sono particolarmente deboli. Obiettivamente si fa fatica ad individuare una qualsiasi proposta di visione da parte di Salvini e compagni che non sia semplicemente l’affermazione che la sinistra e M5S fanno tutto male e che loro farebbero molto meglio. Non dicono come, non mettono in chiaro un disegno di gestione delle nostre difficoltà, si limitano a ripetere che l’attuale maggioranza di governo è solo capace di mandare a rotoli il paese. Chi però continua credere che arriverà il momento in cui la gente si accorgerà di questo vuoto, sbaglia. Sottovaluta che almeno per una parte cospicua del paese (se davvero supererà il 50% lo si vedrà) quella è la verità, cioè è quanto vogliono sentirsi dire, perché ne sono convinti. La sensazione che solo un cambio radicale di classe politica possa rispondere ai travagli del presente è ampiamente diffusa: sul come ciò debba avvenire, si è disposti ad aspettare scommettendo sulle capacità salvifiche già del solo cambiamento.

È quello che né la sinistra, né i Cinque Stelle vogliono ammettere. Per i secondi si può capire la delusione: erano loro che avevano rastrellato un ampio consenso proprio intestandosi per primi l’interpretazione di questa voglia di cambiare classe politica. Però hanno fallito la prova pratica, perché, come dicono gli inglesi, la prova del budino consiste nel mangiarlo. L’assaggio delle capacità di governo dei pentastellati non è stato buono. Anche se andrebbe riconosciuto che nella costruzione della nuova alleanza col PD qualche miglioramento è stato fatto, la permanenza al vertice di un capo politico che non sa fare il suo mestiere (né prima come ministro dello Sviluppo, né adesso come ministro degli Esteri) ha contribuito a dissipare le attese messianiche. Il fatto che Grillo lo abbia blindato non ha migliorato il quadro. È stato troppo evidente che era una scelta per mancanza di alternative e per non esporre il movimento ad un via libera alle competizioni interne, sicché la toppa è stata quasi peggio del buco.

Ciò che però stupisce, perché stiamo parlando di una forza politica ben rodata, è l’incapacità del PD di affrontare a fondo il problema della sua perdita di credibilità. Qualcuno ricorderà come questa sindrome si sia rivelata mortale per la DC che dagli anni Settanta in poi ha passato il suo tempo a negare che fosse alle porte una crisi di credibilità delle sue classi dirigenti, tanto che ogni voce critica che veniva dal suo tradizionale retroterra cattolico era vista con astio e liquidata come stupidamente ingenerosa. Aldo Moro negli ultimi anni della sua vita si dedicò a predicare che un cambiamento era necessario, e che, se un’alternativa dall’esterno non si riteneva possibile, la DC doveva produrre nel suo seno l’opposizione a sé stessa. Ma sappiamo che con questa come con altre osservazioni non ebbe fortuna.

Il PD sta ripetendo quella storia? Per certi aspetti sì, anche se nulla si ripete in maniera immutata. Anziché applicarsi a riformare davvero il suo modo di essere “partito”, che è rimasto più o meno quello del vecchio PCI un po’ adeguato ai tempi attuali, si lascia andare al più classico dei miraggi delle forze in crisi: la convinzione che la salvezza stia nell’escogitare nuovi sistemi di alleanza in cui avere il ruolo di forza egemone.

Sembra stia tramontando la visione che teneva banco fino ad alcuni anni fa, cioè l’idea che la salvezza consistesse nell’aggregarsi intorno l’estrema sinistra e il progressismo centrista. La prima sta perdendo credibilità: al più punta a farsi riprendere nelle fila dell’antico partito-madre. Di quanto nato dall’antica sinistra extraparlamentare non sopravvive che qualche isoletta intellettualista. I fuorusciti da sinistra dal PD sono poco più che piccoli vassalli senza particolare appeal. Quanto al progressismo centrista non si sa che fine abbia fatto. C’è qualche figura che ogni tanto cerca di ridargli fiato (vedi Calenda), ma sono operazioni di nicchia. L’esperimento di Renzi guarda a quell’area per tatticismo, perché deve pur dare una qualche ragione nobilitante ad una scissione che è un’operazione nata per dare spazio e ruolo ad un po’ di vecchi notabili (vecchi anche quando sarebbero giovani per età).

Così il PD è ridotto a non saper bene né chi è né cosa ci sta a fare. Certo l’aver ritrovato il professionismo di un po’ di ruoli di governo lo aiuta a tirare avanti, ma non è abbastanza per dargli identità. Soprattutto la sua classe dirigente è logorata da una lunga gestione del potere e il partito non sa dove guardare per attuare quel ricambio consistente che sarebbe necessario per la sua rinascita. Non glielo consentono i suoi uomini e donne, da cui ovviamente non ci si può aspettare la generosità di farsi da parte per finire nel nulla (di Veltroni che ha capacità di rifarsi una vita ed un ruolo ce n’é uno …). Eppure una parte non piccola dell’attuale problema della politica italiana è lì e continuare a procedere in maniera confusa è solo un assist per una destra senza idee, ma col vantaggio di presentarsi come l’alternativa che farà ripartire la situazione.

(da mentepolitica.it)

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