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Enrichetta e Carlo Pisacane, amore al tempo della rivoluzione

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Enrichetta e Carlo Pisacane, amore al tempo della rivoluzione

Se il Risorgimento fosse una storia di amore sarebbe quella di Enrichetta di Lorenzo e Carlo Pisacane. Il fascinoso ufficiale, la moglie fedifraga, la drammatica fuga, lo scandalo, la miseria, il carcere, le barricate, le riunioni segrete, il fallimento del sogno insurrezionale, la morte violenta. Una comune passione ideale e fisica a tenere uniti in una esistenza ai limiti della sopportazione. La tensione patriottica e l’amor patrio che intrecciano con la sfida privata alle regole del tempo. Il loro amore nasce nel tumulto della festa di Piedigrotta. Anche se, l’8 settembre 1830, sono solo bambini. Lei, Enrichetta di Lorenzo, figlia di un ricco banchiere napoletano, ha 10 anni. Lui, Carlo Pisacane, orfano di duca e caduto in miseria, ne ha 12. Si intendono subito. Crescendo capiscono anche di amarsi, ma senza speranza. Lui, sebbene diventato figliastro di un generale e brillante studente del collegio militare della Nunziatella, vede lei costretta a sposare, otto anni dopo, il ricco cugino commerciante: Dionisio Lazzari. Carlo, appena diventato alfiere del genio borbonico, freme a vedere la sensibile Enrichetta andare tra le braccia di quell’uomo più anziano, greve e violento. Trasferito a Gaeta per lavorare alla costruzione della nuova ferrovia Napoli-Caserta prova a dimenticarla. Ma quando, promosso tenente, torna a Napoli, quattro anni dopo, è ancora amore. Che anzi diventa passione dirompente nel vedere Enrichetta vivere da moglie umiliata, cui il gretto marito impedisce, con dispotiche governanti, anche di esprimere l’amore materno verso i tre figli. Trattata, scriverà lo stesso Carlo, “con le maniere le più rovinose, con le parole le più indecenti, con i modi più bruschi”. Prima sono solo sguardi di intesa, poi parole di consolazione, poi confessioni amorose. E in un paio di anni sono l’una nelle braccia dell’altro. Lei legge della infelice sorte della Héloise di Rousseau per accettare la sua schiavitù, lui la costringe a leggere nei suoi sentimenti e le ricorda il suo motto preferito: volere è potere. E nel 1846 le scrive: “Per persuaderti che l’amore per i tuoi bambini contrasta con il mio potrei ricordarti quanto mi hai scritto: vivere lontano da loro sarebbe mille volte peggio della morte. Il tuo Carlo ha così poca importanza per te? Questi due amori sono ambedue sacri sentimenti naturali”. Insieme all’amore cresce l’insofferenza. Carlo, come ufficiale borbonico, è sempre più spavaldo: insieme ad altri ufficiali firma la sottoscrizione per “una sciabola d'onore” da regalare a Garibaldi, eroe dei due mondi in Sud America. E nella notte di ottobre del 1846 viene ferito da una pugnalata a tradimento ai piedi della scalinata di San Gregorio Armeno. Forse un “avvertimento” del marito di Enrichetta. Lei scopre di aspettare un figlio da Carlo. I due amanti pensano anche di uccidersi. Ma è forse anche da questo momento di disperazione che nasce l’anarchico Carlo. Le parole che scriverà anni dopo nel suo testamento politico non dovevano essere diverse da quelle sussurrate alla sua amata: “Quando la schiavitù è troppo vergognosa ed i più chinano la fronte e presentano le mani alle catene, che accettano con piacere, allora gli eletti - la cui natura ha scritto nell’animo orrore alla schiavitù, che la vita non curano di fronte al piacere di elevarsi al di sopra dell’ingiustizia ed hanno il pieno sentimento di bastare a se stessi - elevano lo stendardo della rivolta”. L’8 febbraio 1847 salpano segretamente da Napoli con un piroscafo. Portano con loro due pistole, che sono intenzionati ad usare se verranno catturati. Si sono registrati sotto i falsi nomi di Francesco Guglielmi e Sara Sanges, quelli di due domestici amici. Allo sbarco a Livorno riescono a depistare la polizia e si imbarcano per Marsiglia. E, sempre perseguitati della diplomazia borbonica (ormai anche Ferdinando II segue il caso “con reale animo conturbato”), giungono il 4 marzo 1847 a Londra. Si fanno chiamare Lumont. Vivono in un misero appartamento del quartiere di Blackfairs Bridge. Carlo entra in contatto con gli esuli italiani. Gabriele Rossetti cerca senza successo di trovare un lavoro operaio al nobile ufficiale. Inseguiti da una richiesta di estradizione fuggono a Parigi. Ma qui, a fine aprile, nell’albergo in cui si sono nascosti, vengono arrestati. Enrichetta abortisce nella squallida cella in cui è rinchiusa. E in cui orgogliosamente accoglie la nobildonna inviata per convincerla a ritornare sulla retta via. “Una riunione delle più esaltate e cieche passioni, con una sfrontatezza e la più orrida immoralità, e l’ateismo il più positivo… non vi è alcuna speranza di veder la signora Lazzari ritornare in famiglia, tanto più che la polizia mi ha dato tutte le facilitazioni ed aiuti per riportare sulla retta via questa donna traviata e madre snaturata” si legge nel resoconto dell’ambasciatore napoletano a Parigi. Carlo ed Enrichetta sono accusati di avere usato dei passaporti falsi. In realtà si sta attendendo la querela ufficiale del marito di Enrichetta da Napoli. Ma questa non arriva e non arriverà mai. A fare da mediatore è entrato infatti in scena il fratello di Enrichetta, Achille. Sebbene abbia solo 23 anni, quattro meno della sorella, banchiere sulle orme del padre, è già segretario del ministro delle finanze e mobilita amici influenti. L’8 maggio la coppia viene scarcerata. E tra gli esuli italiani a Parigi (tra cui il napoletano Guglielmo Pepe), ma anche nei salotti liberali, viene accolta con grande ammirazione. Enrichetta poi conosce Henri Dumas, Victor Hugo, ma soprattutto George Sand. E matura così quella fermezza di donna emancipata che la sosterrà nei momenti più difficili. Che sono quelli della crescente nostalgia dei tre figlioletti lasciati a Napoli. Inizia un fitto scambio di lettere con il fratello Achille. Solo l’inizio della lunga trattativa per ricondurla a Napoli. Di lui, che è segretamente iscritto alla Giovine Italia da quando aveva 14 anni, Enrichetta si fida, uniti come sono dalla comune passione politica. “Il fratello non fu mai il persecutore di una sorella” le rassicura Achille. Finalmente la madre, la nobildonna romana Nicoletta Muti, risponde alle sue missive (“ho baciato mille volte la vostra lettera”) e per lei è lo sciogliersi di un dolore represso: “Crederei solo morire per la troppa felicità se vi aggiungesse la fortuna della vostra vicinanza e quella dei troppo cari figli miei dilaniata dalla nostalgia l’acerbo dolore che io sento nel dovere abbandonare i figli miei”. Ma la madre inizia a porre delle condizioni per lei inaccettabili. Ribadisce che se tornerà a Napoli non tornerà mai ad “essere schiava in casa di Dioniso” e difende sempre, nelle lettere ai familiari, la dignità del suo amore per Carlo: “Tutti mi conoscono ed invece di condannarmi mi ammirano. Pensando al passato non potete credere la vergogna ed il disprezzo che concepisco per me stessa, per tutte le donne che stringono fra le loro braccia un uomo senza sentire ciò che io sento per Charles, è un prostituirsi il mentire i sentimenti della natura”.

Il 31 maggio Carlo scrive da Parigi allo scrittore Giovanni Ricciardi, amico anche di Achille: “L’amore di madre è in lei fortissimo… I disagi a cui con me va soggetta le fanno temere la perdita di un pegno che porta nel suo seno, e che ci lega. Queste due ragioni, l’indurrebbero a ritornare a Napoli ed a lasciarmi, ed io vedrei in questo il suo bene”. Enrichetta aspetta infatti un figlio. Vivono in miseria e quindi Carlo, per guadagnare, si fa arruolare nella legione straniera grazie all’aiuto del duca di Montebello, amico di famiglia e ministro della marina francese. Enrichetta, partito Carlo per l’Algeria, andrà ospite da amici a Marsiglia. In questo momento i familiari, che già le stanno inviando del denaro da Napoli ed alcuni dei quali hanno avuto modo di incontrarla, provano a convincerla con più forza. Enrichetta è sul punto di tornare a Napoli, vorrebbe che la sua levatrice la potesse assistere nel parto, ma la richiesta della madre, quella di abbandonare il figlio della colpa, la raggela. Da Marsiglia, il 28 ottobre, Enrichetta scrive: “Cara Madre, sono rimasta meravigliata ed inorridita di ciò che si pretende da me; mi condannate per avere io lasciato i miei figli che hanno un nome, una fortuna, delle persone che possono prenderne cura come la loro madre istessa, e poi mi si propone, anzi si esige, che io abbandoni il caro figlio dell’amore a cui sono per dare la luce, e che non avrà né nome, né fortuna, per cui ha più dritto all’amore mio ed alle mie cure!”. Purtroppo Carolina, nata a dicembre, morirà poco dopo il parto. Enrichetta affogherà il suo dolore nella foga con cui accoglierà, emozionata, i moti parigini del 28 febbraio 1848, “anno destinato a farci vedere grandi avvenimenti” scrive al fratello Achille, finito anche lui in esilio per aver usato il suo passaporto borbonico per portare aiuti e finanziamenti ai patrioti in Italia ed esuli all’estero (ruolo che dopo l’unità d’Italia gli varrà un seggio da deputato). Un mese dopo riabbraccia a Marsiglia il suo Carlo che, dal deserto africano, non ha resistito al richiamo della primavera della prima guerra di indipendenza. Si congeda, si arruola come capitano volontario nella Legione Lombarda, conosce Carlo Cattaneo, il pensiero federalista del filosofo si innesta con forza nel suo impeto insurrezionale, facendolo maturare nel rivoluzionario che lotta per uno stato socialista di comuni federati libertariamente.  

Una scheggia austriaca lo riporta, ferito, a Salò, tra le braccia di Enrichetta. Le battaglie per Carlo, la cura delle ferite per Enrichetta: sono l’avvisaglia di quanto li attenderà tra pochi mesi. La Repubblica romana vede infatti i due giovani accorrere, nel febbraio 1849, in difesa di un sogno. Insieme con loro anche la gioventù ribelle delle guerre del Milanese che, come lo stesso Pisacane, l’armistizio di Salasco non ha fiaccato. Anzi. Manara, Dandolo, Mameli, Moroni sono tutti destinati a morire per quel sogno, giovani ed eroici.

A Roma Pisacane ed Enrichetta si presentano subito a Mazzini. Il grande esule ha ora davanti un ufficiale dal piglio deciso, una donna dai modi pratici ma eleganti. Non ricorda neppure di averli incontrati pochi mesi prima in Svizzera: lui convalescente, lei sua amorevole infermiera. “Bastò un'ora di colloquio perché l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studi ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza d'intuizione e il genio, sí raro a trovarsi, dell'insurrezione”. Ma nei mesi dell’assedio l’ufficiale, diventato nei fatti ministro della guerra della Repubblica e lodato da Victor Hugo come più eroico di Garibaldi, entra in conflitto con il potente triumviro. Pisacane sostiene che la Repubblica debba attaccare verso Nord e Sud, dopo che i borbonici si sono ritirati e attestarsi lontano dalla città per tener testa all’avanzata in massa dell’artiglieria francese. Mazzini invece insiste nel concentrare tutta la forza nella difesa di Roma, per una questione squisitamente politica, per fare della città un simbolo di coraggio e farle assumere così il prestigio di capitale della nuova Italia: “Lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità”. Inoltre per Pisacane, deluso sul campo di battaglia, la Repubblica non deve legarsi al titubante Stato sabaudo. Mazzini, stratega delle diplomazie, vuole che il re sabaudo venga coinvolto nella lotta contro lo straniero. Ci spera quando Carlo Alberto muove con 10mila uomini verso il Po. La sconfitta del 23 marzo a Novara darà ragione a Pisacane. Roma rimane isolata. Mazzini pensa che bastino i grandi cartelli in francese inneggianti l’inviolabilità a fermare l’avanzata dei 7mila uomini di Oudinot sbarcati a Civitavecchia. E poi intavola le trattative che permetteranno ai francesi di fare il loro doppio gioco e prepararsi con calma all’assedio finale. Se a maggio Garibaldi trionfa a Velletri, costringendo il re borbonico alla ritirata, è grazie a Pisacane, l’unico che diffida dei francesi, riuscito con caparbietà, imponendosi su pedanti e sbandati, a creare un esercito gerarchizzato, piegando capobanda, inimicandosi i ribelli garibaldini, i bersaglieri di Manara. E possiamo immaginare cosa si muova nell’animo del capo di stato maggiore che sa di avere di fronte il fratello Filippo, fedele alla cavalleria borbonica. Ed è sempre Pisacane che appronta i piani della battaglia di San Pancrazio. È lui il solo che insiste per trasformare l’assedio in una guerra di movimento. Non ci crede neanche Garibaldi. E sarà il massacro e la resa.

Mazzini intanto aveva nominato Enrichetta “direttrice dell’ambulanza”. Lei, firmandosi per la prima volta Enrichetta Pisacane, lancia ad aprile l’appello alle “donne romane” ad accorrere in aiuto dei feriti “in nome della patria carità”. È sotto il fuoco francese, a San Pancrazio, insieme a Cristina di Belgioioso, Margaret Fuller - prima corrispondente estera americana e leggenda femminista  -, Giulia Modena, moglie dell'attore mazziniano, Adele Baroffio, la bionda innamorata di Mameli, e le tante donne che la storia dell’eroismo garibaldino di quei giorni ha dimenticato. E che vide Enrichetta prestare instancabile le sue cure da crocerossina anche ai soldati francesi ed allo stesso generale francese Oudinot. Grazie a questo, caduta Roma a luglio e incarcerato Carlo a Castel Sant’Angelo, riuscì ad ottenere subito che venisse scarcerato. I due amanti si rifugiano a Lugano, poi a Londra con un biglietto di presentazione di Mazzini per le sorelle Ashurts, il “clan” di Mazzini. Ma Emilia e Matilde non trovano in Carlo un alter ego di “Pippo”, lui non discorre pacatamente, non cucina ricette liguri. Pisacane conosce Marx e matura il convincimento che l’unità italiana debba passare per la strada rivoluzionaria, che libertà non sia possibile senza uguaglianza sociale, legge Proudhon, Fourier, Saint-Simon, incontra Louis Blanc. E scrive all’esule napoletano Francesco Dall’Ongaro: “O Pippo crede possibile risolvere il problema sociale senza abolire la proprietà ed allora non ha studiato a fondo la società presente o Pippo parla così per non intimidire i proprietari ed allora simula; ciò non è da rivoluzionario”. Con Mazzini arriva così a sfiorare la rottura. Mentre, nella “maledetta nebbia” inglese, come scrive nell’aprile 1850, Enrichetta soffre ancora di più la nostalgia per Peppino, Eugenio e Manina. Vuole “cedere al sentimento di madre che mi chiama presso i suoi figli” ma ribadisce che non intende scusarsi per una “nobile passione” e chiede di nuovo il perdono materno: “Dopo aver invocato la vostra ragione io invoco la vostra coscienza”, “finirà che mio malgrado dovrò rinunciare ai miei figli per le vostre barbarie”. Tuttavia è consapevole che il suo coinvolgimento nella Repubblica romana ha peggiorato la sua situazione. Lo si vedrà quando la madre chiederà per lei un passaporto alle autorità borboniche, che le verrà rifiutato. Così, lacerata, mentre Carlo è impegnato a capire come riscattare la sconfitta romana e riordina il suo pensiero nelle bozze della “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49”, la sua unica opera pubblicata in vita, lei raggiunge da sola un alberghetto di Genova, dove finalmente può incontrare i familiari. Le è vicino un compagno di studi di Pisacane, Enrico Cosenz, reduce dalla battaglia di Venezia. Tra i due c’è una breve relazione. Ma quando Carlo torna da Enrichetta, nell’autunno 1850, la fiamma si riaccende. E si spande nella tranquillità del focolare domestico di una casetta sul Colle Albaro vicino Genova, per sette anni, durante i quali, nel 1853, nasce Silvia. Ma non è certo questa la vita che fa per l’anarchico Carlo. Verso il 1855 si riaccosta a Mazzini, vuole partecipare al progetto di una spedizione che sollevi l’insurrezione nel Sud, i moti antiborbonici in Sicilia e Calabria dicono che i tempi sono maturi. Sta nascendo la spedizione di Sapri. Enrichetta è l’unica donna che, nel giugno 1857, partecipa a Genova ad un summit con Mazzini, Cosenz, Pilo, Nicotera. Le sembra una missione suicida quel piano di dirottare una nave di linea, incontrarsi in alto mare con la barca di Rosolino Pilo carica di armi (che infatti per il maltempo si perderà), liberare i 300 detenuti di Ponza, sbarcare contando sulla presenza in forze dei rivoluzionari napoletani (che infatti non ci saranno all’appuntamento) e rovesciare il governo borbonico (che invece, grazie anche alla popolazione che li prese per dei briganti, li inseguì, arrestò, trucidò). Lo dice chiaramente nella riunione: Nello Rosselli racconterà che parlava “con rude schiettezza”. Le sue parole convinsero Carlo solo a rinviare l’ardita spedizione a dopo un sopralluogo a Napoli. Ne torna con la convinzione che nel Sud la “rivoluzione morale” esista e che sia necessario un “impulso energico” per spingere le popolazioni a tentare un “movimento decisivo”. 

Enrichetta saprà che il suo Carlo si è suicidato il 28 giugno, sparandosi alla testa, accerchiato dai contadini inferociti, per non finire massacrato come gli altri, solo il 4 luglio. Scrive a Rosolino Pilo: “È molto crudele che la sua morte non abbia giovato menomamente al nostro paese! Ei non prevedeva ma io sì e glielo dissi l’ultimo giorno. Ma il povero Carlo era efferato non poteva più ragionare o come era illuso il povero Carlo su tutto”.

Viene espulsa da Genova, imposto il domicilio coatto a Torino, è sorvegliata dalla polizia sabauda, che spesso le irrompe in casa con violente perquisizioni, la umilia storpiandole il nome in “Pisciacane”, la stampa la disprezza, tanto che dei parlamentari protestano formalmente. Torna poi a Genova. Il musicista Luigi Mercantini compone la “Spigolatrice di Sapri” (“Erano trecento erano giovani e forti e sono morti…”). Certamente incontra Garibaldi quando arriva a Genova nel 1858. Gli presenta “Silvietta”, che sta crescendo gracile e malata. Già vittima innocente dei rancori nati intorno alla memoria del padre. La sottoscrizione lanciata da Cosenz a livello nazionale perché la bambina venga “adottata” dai maggiori patrioti non ha successo. Si deve ripiegare su una assicurazione stipulata da un gruppo ristretto di amici. Ma sarà Garibaldi, entrato a Napoli nel 1860, ad assegnare alla piccola Silvia un vitalizio di 60 ducati al mese, in uno dei primi decreti dopo lo sbarco. Enrichetta può finalmente tornare a Napoli, Nicotera, uscito dal carcere, adotta Silvia. Lo aveva promesso a Carlo, prima che si suicidasse. Il padre adottivo, futuro ministro dell’Interno, si rivela premuroso. Nella villa di campagna di San Gregorio Matese del senatore ed amico Achille Del Giudice viene attrezzata una stanza con un bagno, cosa rara in quel tempo, solo per la cagionevole Silvia. Ma si rivelerà una amicizia di interesse: Del Giudice non esiterà a derubare la dote di 66mila lire della ragazza che Nicotera nel 1878, in buonafede, gli gira interamente per coprire il senatore da uno scandalo di assegni falsi. Questi non restituirà mai quei soldi, malgrado anche una causa legale intentatagli dall’ormai ex amico Nicotera.

Enrichetta finirà i suoi giorni nel 1871. Poco prima di morire “volle condursi cagionevole a rivedere libera e nostra quella Roma per la quale aveva combattuto”, come scrisse sulla sua tomba Felice Cavallotti. Ma, anche dopo la sua morte, la sua “colpa” di donna traviata non si estinse. Quando Silvia morì, a 35 anni, minata dalla tubercolosi, nel 1888, l’impiegato comunale scrisse nell’atto di morte: "S'ignora la madre". E la sorellastra, figlia di Nicotera, distrusse le compromettenti lettere di Carlo ed Enrichetta. Silvia morì però con un successo politico in memoria del padre: quello di aver salvato dalla condanna a morte, grazie all’intercessione chiesta da lei a Nicotera, gli anarchici che nel 1877, guidati da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, tentarono di sollevare il Matese.

Le spoglie di Enrichetta e Silvia oggi riposano nella tomba di famiglia di Nicotera. Mazzini non lascerà scritto nulla dei suoi dissidi con Pisacane. Ma un omaggio sentimentale: “Unico raggio ai giorni di chi cerca patria e non l’ha, gli era compagno un amore nato fin dal 1830; infelice, pur costante, per 17 anni, ricambiato apertamente con rara e lieta fedeltà da quel tempo e sino agli ultimi giorni. Dal 1847 in poi la donna del suo cuore lo seguiva e gli accarezzava della suprema carezza l’incerta vita”.

 

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