Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Giuditta Arquati e Adelaide Cairoli, le madri della Patria

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Giuditta Arquati e Adelaide Cairoli, le madri della Patria

25 ottobre 1867. I garibaldini alle porte di Roma, mentre assediano le mura fortificate di Monterotondo, credono che i romani siano già sulle barricate. Garibaldi attende lo scampanare a martello delle chiese, il segnale convenuto per l’avvio dell’insurrezione contro il Papa Re. E invece la città ha le strade deserte, le botteghe chiuse, le porte delle case sprangate. Il surreale silenzio del coprifuoco spezzato dal passaggio degli zuavi armati. La rete delle spie, che da mesi segue la cospirazione, ha funzionato. Metà delle porte di Roma è stata murata e i ribelli si sono ritrovati senza armi. E soprattutto senza gli oltre 8mila fiancheggiatori promessi dai comitati repubblicani. Mentre ci sono - in allerta e ben equipaggiati - i 15mila tra gendarmi, dragoni e zuavi che difendono il potere di Pio IX. E le prime sommosse, sferrate il 22 ottobre, tre giorni prima, da sparuti gruppi di fuoco, sono state subito soffocate nel sangue. A Porta San Paolo il bresciano Giovanni Guerzoni, il segretario di Garibaldi, trova ad attendere il suo carico di armi solo una decina di insorti e questo finisce in mano ai soldati papalini, fallisce l’assalto al Campidoglio, l’attacco a piazza Colonna non va oltre lo scoppio di una bomba, che uccide una sentinella. Alle 19 un’altra bomba fa crollare la caserma Serristori. Sotto le macerie muoiono in 22, tra cui due passanti, una bambina di 6 anni, Rosa Ferri e suo padre Francesco, la madre sopravvive. Tre feriti moriranno nei giorni seguenti. Ma il grosso degli zuavi era fuori caserma a dare la caccia a Guerzoni. E i responsabili dell’attentato, i muratori Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, vengono subito arrestati ed un anno dopo ghigliottinati, ultimi condannati a morte da Pio IX. Intanto, nascosti tra le canne sotto Ponte Milvio, una settantina di attivisti giunti in barca lungo il Tevere, con un carico di 300 fucili, guidati dai fratelli di Pavia Enrico e Giovanni Cairoli, attendono invano gli insorti romani. All'alba del 23 il gruppo si asserraglia in un casale sui monti Parioli, Villa Glori, dove viene attaccato nel pomeriggio da 300 soldati pontifici. Combattono per un’ora. Al primo contrattacco alla baionetta un terzo del gruppo cade in mezzo a mandorli e vigne. Tra le vittime Enrico, 27 anni, uno dei Mille; Giovanni, 25 anni, sanguina da 10 ferite, riesce a ritornare da Garibaldi. Che incarica l’energica Jessie White (sua biografa inglese e moglie del cronista dei Mille, Alberto Mario, entrambi nel suo seguito), di entrare a Roma per recuperare il corpo di Enrico.

Ma, a Roma, la sconfitta non ferma Francesco Cucchi. Il deciso bergamasco che Garibaldi ha voluto a Roma per guidare i patrioti romani è convinto che, con il generale alle porte della città, la rivolta possa ancora accendersi e dilagare tra il popolo. E l’ala più agguerrita dei cospiratori romani - semplici operai ed artigiani - crede al trentenne colonnello garibaldino, eroe dell’impresa di Mille. Quel 25 ottobre si riunisce quindi in un lanificio di Trastevere, in via della Lungaretta, per preparare una azione dimostrativa: un assalto esplosivo a carceri e chiese. Sotto le balle di lana il proprietario, Giuseppe Ajani, ha nascosto bombe, cartucce, fucili, pistole. Nel lanificio sono riuniti in una settantina. Tra di essi anche il direttore della fabbrica, Francesco Arquati. E sua moglie, Giuditta Tavani. Ha 37 anni, è bruna, alta, energica. È lei che ha fabbricato molte delle cartucce esplosive. Era 19enne quando il padre Giustino combatté sulle barricate romane del 1849. Lo aveva seguito sulla via dell’esilio, al nord, insieme al marito. A Roma era tornata da due anni, insieme ai quattro figli intanto nati e al sogno, intatto, di liberare la sua città. E, come ama ripetere, senza “ardire” le rivoluzioni non si vincono. Malgrado sia incinta del quinto figlio, la mattina di quel 25 ottobre lavora senza sosta per preparare il pranzo agli uomini riuniti nel lanificio. Nella sua vicina casa di Trastevere ha affidato la piccola Adelaide, 3 anni, alle cure delle figlie adolescenti, Rosa e Virginia. Con sé ha portato il figlio Antonio, 12enne. Il ragazzino viene messo di sentinella, si è nascosto in tasca una bomba. È lui, alle 12.30, il primo ad accorgersi dell’arrivo  di una colonna di 300 zuavi, avvertiti da una spiata. Si spaventa, lancia l’ordigno e si scatena la battaglia. I ribelli sprangano le porte, imbracciano le armi ed iniziano a sparare dalle finestre. In terrazzo si piazzano il 50enne Paolo Giovacchini e i tre figli Giuseppe, Giovanni e Francesco. Giuditta carica i fucili, soccorre i primi feriti, guardando il volto pallido di Antonio si mostra coraggiosa, sprona i compagni. Gli zuavi pongono il lanificio sotto un fuoco incrociato, mirando dal campanile e dalle case vicini. La sparatoria infuria per due ore. Per tre volte i papalini vanno all’assalto e vengono respinti. Devono accorrere altri 300 zuavi di rinforzo. Tentano di abbattere il portone, uno spagnolo ed un francese vengono feriti. Poi, improvvisamente, il fuoco dei rivoltosi si spegne. Giuditta grida che sono finite le munizioni. Non si riesce a trovare la chiave di un ripostiglio di armi. La situazione appare disperata. Intanto gli zuavi si assiepano davanti al portone. Gli insorti cercano di frenarli scaraventandogli addosso dalle finestre mobili e suppellettili. Poi gli zuavi sfondano e una trentina di congiurati cerca la fuga sui tetti, passando per gli abbaini. In una ventina resta a proteggerne la ritirata, condannandosi a morte certa. Tra questi Giuditta che, ferita, si trincera in una stanza, insieme a marito e figlio. Si lotta ora corpo a corpo. Alla prima scala un rivoltoso uccide uno zuavo, quindi si pugnala a morte. In cima della seconda scala un vecchio spara e grida agli altri: “Lasciatemi spender bene la vita: andate!”. Gli zuavi lo abbattono e irrompono nella stanza in cui si trovano gli Arquati. Lei li affronta a pistolettate e viene colpita a bruciapelo da una fucilata, che però non la uccide. Ed è costretta a subire l’orribile visione del marito e del figlio trafitti con tale violenza dalle baionette da bucare il muro dietro di loro. Si trascina sanguinante verso i loro corpi martoriati. Gli zuavi sollevano le lame per finirla. Puntano senza pietà sul ventre gravido. Uno avrebbe addirittura detto: “Vediamo se è vero…”. Poi nello stanzone attiguo fanno strage di altri dieci asserragliati. E infieriscono selvaggiamente sui corpi con i calci dei fucili e le baionette; uno, forse in fin di vita, lo lanciano da una finestra. Poi gli zuavi - tra cui c’erano francesi, belgi, svizzeri, irlandesi, olandesi - brindano alla vittoria sedendo alla tavola imbandita da Giuditta, in mezzo ai cadaveri dalle ossa stritolate, in un “pantano di vino e sangue”. I primi testimoni sul posto descrivono i corpi martoriati delle 19 vittime, tra cui quello di Giuditta, con la mano stretta intorno al revolver. Quando 100mila romani, il 25 ottobre 1870, si recheranno in pellegrinaggio per la prima volta nel lanificio, il cronista Alberto Mario riferirà che “vedevansi nell’intonaco della parete i buchi fatti dalle baionette nel passar da parte a parte i corpi di quei gloriosi infelici e la parete spruzzata di sangue e larghe macchie sanguigne sul pavimento”. Tra i partecipanti alla cerimonia anche Ajani, catturato ma scampato alla condanna a morte (la cerimonia che si ripete ogni 25 ottobre, a partire dal 1887, fu interrotta solo dal fascismo. Nel 2008 la figura di Giuditta è stata accomunata alla partigiana Rita Rosani, medaglia d’oro alla memoria, uccisa a 24 anni, nel 1944, mentre copriva la ritirata dei suoi compagni, caduti in un’imboscata). Mentre, quel 25 ottobre 1867, Giuditta diventa l’ultima donna martire del Risorgimento, Garibaldi e i suoi volontari avanzano verso Roma, superando la resistenza dei soldati pontifici, ma non l’indifferenza del popolo. Per la prima volta il 60enne eroe, che per le ferite e l’artrite deve essere aiutato a salire a cavallo, viene accolto, con stupore, da un popolo muto. Per la prima volta vede espressioni stanche tra i suoi garibaldini. Li ha raggiunti dopo una fuga rocambolesca da Caprera in cui il nuovo primo ministro Rattazzi lo aveva posto agli arresti dopo che l’eroe-deputato aveva iniziato a sbandierare, dalla primavera, in tutti i suoi comizi nel Nord Italia, il grido “O Roma, o morte!”, dopo aver rispolverato la sua carica di generale della Repubblica romana del 1849, ufficialmente mai decaduta. E da Siena aveva quindi chiaramente annunciato la campagna d’autunno: “Alla rinfrescata, muoveremo!”.

Cinque anni prima Rattazzi gli aveva dovuto far sparare addosso a Garibaldi, sull’Aspromonte, per impedirgli di arrivare a Roma e ci aveva perso la carica di premier. Stavolta, ritornato al governo, affitta delle navi da guerra per sorvegliare Garibaldi a Caprera e assicurare l’alleato francese che non riuscirà a guidare la rivolta annunciata contro il Papa Re. Ma il nizzardo, complice l’inglese - e forse amante - Emma Collins, che lo fa passare segretamente attraverso i suoi possedimenti sull’isola ed al cognato Stefano Canzio, con cui pagoda nottetempo nelle acque sarde (facendogli rievocare le giovanili imprese in canoa sui fiumi americani) fugge il 14 ottobre, sbarca in Toscana, si pone a capo della campagna dell'Agro romano - ufficialmente partita il 30 settembre con l’avvio dell’accerchiamento di Roma da parte di 10mila garibaldini, gli ultimi soldati volontari di una battaglia in Italia. E rifiuta la mediazione dell’amico Crispi, che Rattazzi gli invia per calmarlo. Dopo l’amarezza del suo “Obbedisco”, ad un passo dalla conquista di Trento e Roma rimasta “miserabile prefettura del Bonaparte”, Garibaldi è deciso, una volta per tutte, a realizzare il sogno di una vita: far crollare la “baracca pontificia”. Ma i 45 giorni della campagna saranno una sequela di insuccessi, fino alla disastrosa sconfitta di Mentana del 3 novembre. Da subito l’avanzata nello stato pontificio si rivela massacrante, l’assedio alle mura fortificate di Monterotondo diventa una carneficina e si attende invano la sollevazione di Roma. Eppure il generale dei Mille si affretta a difendere l’ardore dei suoi volontari scrivendo: “Diffidarne era un delitto, roba da vecchio decrepito!”, “anche in questa campagna di Roma, i valorosi volontari hanno compiuto il loro Calatafimi”.  Ma, per la prima volta, sono proprio i suoi luogotenenti - Acerbi, Nicotera, perfino il figlio primogenito Menotti - a non credere che i romani saliranno sulle barricate. A fine di ottobre 2500 francesi sono sbarcati a Civitavecchia, Rattazzi si è dovuto dimettere, Napoleone II minaccia Vittorio Emanuele II di invadere il Regno d’Italia se l’esercito dovesse varcare la frontiera pontificia. Ma il re galantuomo spedisce i soldati ad arrestare Garibaldi. Che intanto si spinge fino alle porte di Roma nella speranza di sollevare gli insorti, sacrificando solo altri dei suoi, come il reparto di retroguardia del maggiore siciliano Raffaele de Benedetto, tra i più appassionati garibaldini, massacrato a Monte San Giovanni.

Finché il 31 ottobre il generale dà l’ordine di ripiegamento. Ma intanto passano due giorni per mettere i volontari, male equipaggiati, perfino delle scarpe, in condizioni di marciare. E arriva il 3 novembre e la disfatta di Mentana. Nella quale non saranno i nuovi fucili chassepot francesi a piegare i garibaldini ma la mancanza di cannoni, di cavalleria (l’unico battaglione a cavallo era quello guidato da Ricciotti, ventenne figlio di Anita) e la perdita di 3mila volontari garibaldini, che disertano, fiaccando il morale. Molti erano scomparsi durante la ritirata, altri fuggono apertamente davanti ai francesi. “Invano la mia voce e quella dei miei prodi ufficiali tenta di riordinarli” scriverà Garibaldi, che preferisce però prendersela con la propaganda mazziniana (pure se il patriota genovese, con il “Proclama agli Italiani” del 20 ottobre, aveva incitato alle barricate). E lascia sul campo 150 morti e 220 feriti contro le 32 vittime e i 140 feriti dei franco-pontifici. Tra i suoi caduti anche il maggiore Achille Cantoni, 32 anni, che guidava una delle brigate della legione garibaldina. Forlivese, aveva salvato la vita a Garibaldi a Velletri nel 1849. Lui ne onorerà la memoria rendendolo protagonista del suo romanzo storico “Cantoni, il volontario”, pubblicato nel 1870, proprio l’anno della presa di Roma. In esso immagina che il “figlio prediletto delle Romagne”, il “più avvenente dei volontari” fa  innamorare una adolescente bolognese, Ida, che si traveste da uomo per seguirlo sui campi di battaglia e trova con lui la morte a Mentana, morendo “feriti nel petto ed abbracciati”, “da far invidia a chi resta, pugnando contro il soldato straniero ed il prete”. A Cantoni è legata anche la memoria popolare di un’altra donna idealizzata, quella che nella canzone del 1879 “La madre abbandonata in cerca del suo Achille” cavalca “come un garibaldin” alla ricerca del corpo del figlio ucciso. Mentana risparmia invece la vita al 42enne Benedetto Cairoli, l’unico dei fratelli Cairoli che esce vivo dalle guerre risorgimentali. Il fratello Giovanni è morto nel 1869, due anni dopo essere stato ferito a Villa Glori. Spira tra le braccia della madre Adelaide Bono, contessa dal cuore carbonaro che ha educato i figli nel culto della libertà e ne vede morire quattro uno dopo l’altro. Dopo aver pianto Ernesto, morto nella battaglia di Varese del 1859, a 26 anni, l’impresa dei Mille del 1860 gli porta via, a 22 anni, Luigi, ucciso dal tifo a Cosenza, gli ferisce gravemente Benedetto ed Enrico. “La vostra mamma è fiera ed ha diritto di esserlo, di possedervi. Ma quanto le costa questa suprema sua materna gloria” aveva scritto ai figli partiti con le camicie rosse. Garibaldi le scrive dopo il secondo lutto di Luigi: “Il suolo che produce delle donne come Adelaide è un suolo sacro. Con donne simili una nazione non può morire”. Ed è tale la gratitudine dell’eroe ha verso di lei che Mazzini la usa come intermediaria per convincere il generale, dopo l’Unità, nel 1861, a riprendere la lotta per liberare Roma: “In nome di Dio e del Paese, ditegli voi tutti, ch'egli stima ed ama, come egli ha in mano le sorti della nostra Patria, e di come Dio gl'imponga grandi doveri. Garibaldi promette ogni tanto al Paese di guidarlo: il Paese lo aspetta; ma non deluda, perdio, l'aspettazione…”. E nel 1869, con i quattro figli già sacrificati (ed altre due figli morte per malattia) sarà poi Adelaide a spronare l’abbattuto Mazzini ricordandogli “che la memoria dei martiri si onora completando l'opera loro”.

La battaglia di Villa Glori verrà celebrata in versi da Cesare Pascarella, la morte di Giovanni da Giosuè Carducci; il mandorlo, ormai secco, che si bagnò del sangue di Enrico, resta radicato nel parco romano ed una scheggia di legno conservata nel museo di Mentana. Adelaide muore nel 1871, l’anno in cui il 63enne Garibaldi regola i suoi conti con Napoleone III vincendo a Digione. Quando Benedetto Cairoli, tre volte presidente del consiglio fra il 1878 e il 1882, inaugura nel 1875 a Gropello (poi  ribattezzatosi Cairoli), un monumento in memoria della madre c’è chi la paragona a Niobe, la regina di Tebe che piange i figli uccisi dal geloso Apollo. Già il Risorgimento rimargina le sue ferite con il viatico della mitologia. Nel 1880 Garibaldi, amareggiato, a due anni dalla morte, si dimette dalla carica di deputato: “Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all'interno e umiliata all'estero”. La campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma viene riconosciuta solo nel 1898, dopo duri dibattiti parlamentari. I riconoscimenti assegnati nel 1900. (Marina Greco)

(© 9Colonne - citare la fonte)