Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Ne’ rifiuto ne’ venerazione
una rilettura di Pasolini

(2 novembre 2020) "Vorrei capire cosa c'è di comune tra il mondo operaio di oggi e il mondo in cui lei ha inserito Medea, in cui secondo me prevale la dimensione individuale-psicanalitica su quella sociale e di classe. Anche la problematica delle civiltà primitive messa così in risalto ha ben poco di comune con una realtà popolare, primitivo non significa popolare e soprattutto non significa operaio”. In uno dei tanti confronti/scontri in tv che hanno costellato il suo percorso, Pier Paolo Pasolini rispondeva a questa domanda dopo l’uscita di Medea nel 1969, interpretato da Maria Callas.  “Ma il terzo mondo lei dove lo mette? – replicava Pasolini - Lei capisce che su tre miliardi di abitanti della terra almeno due appartengono al terzo mondo? Il film non è rivolto ma parla del terzo mondo, si rivolge alle persone intelligenti: io escludo che un operaio all'avanguardia non implichi tra i propri problemi i problemi del terzo mondo. Le pare possibile fare una scissione simile? È chiaro che se nessuno parla di questi problemi. . .  è un problema di conoscenza: c'è un sentimento del popolo che riassume tutto”. Quarantacinque anni dopo la sua morte, avvenuta a Ostia in modo tragico e ancora avvolto nel mistero quarantacinque anni fa, la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, la popolazione mondiale ha nel frattempo superato i 7 miliardi ma il corto circuito tra Pasolini e i suoi lettori (o spettatori) continua, anche dopo la scomparsa del poeta.

 

IL LIBRO. Su questo rapporto, sulla complessa ricezione di un’opera che si è costruita e si presenta come un work in progress, contrassegnata da soluzioni sperimentali talvolta estremistiche, prova a far luce il saggio di Antonio Tricomi “Pasolini”, pubblicato da Salerno editrice, più che proporre “un qualche canone nuovo interno all’opera di Pasolini”. “Da viscerale ‘dittatore mite’ quale in Petrolio si descrive, li ha insomma presi in ostaggio Pasolini stesso i propri interpreti – sottolinea l’autore del saggio - Chiedendo loro una fedeltà alla sua opera da intendersi, però, non già come idolatrica celebrazione di essa e del vieppiù disilluso autore civile capace di darle forma, ma come intenso, disinibito, se necessario finanche livoroso corpo a corpo con tale sterminata messe di pagine e fotogrammi, di umori e persino dipinti: con lui”. Perché il solo modo di rispettare i maestri, ci ricordava lo stesso Pasolini in “Uccellacci e uccellini”, è “mangiarseli in salsa piccante”. “Renderne cioè controversa, e appunto così farne rivivere, la lezione – spiega Tricomi - non certo venerarne con fanatico o remissivo zelo la memoria”. Rifiuto e venerazione, in fondo, sono due facce dell’incomprensione. Secondo l’autore “se si vuol essere i lettori o gli spettatori auspicati per sé da Pasolini, tocca impegnarsi periodicamente, anche in conflitto con pur invincibili tendenze critiche di segno opposto”, a smitizzare quell’autore che Sciascia avvertiva come “fraterno e lontano”. “E questo non per negare la testardamente generosa, benché in ultimo umoristicamente disperata, capacità dei suoi libri, dei suoi film di cogliere la realtà senza tuttavia arrendersi ad essa, cioè continuando sempre a pensarla anche solo in minima parte modificabile – afferma Tricomi - Viceversa, per non condannare le sue opere a quella paradossale forma di illeggibilità cui le destina chi di fatto si esima dal vagliarne i precisi significati accontentandosi di giudicarle profetiche, e non magari satiricamente utopistiche pur quando esse si dichiarino impotenti”. Il saggio di Tricomi ripercorre tutto il percorso umano e intellettuale di Pasolini: dal suo potenziale antifascismo tutto culturale alla morte del fratello Guido (partigiano nella brigata azionista Osoppo, ucciso da altri partigiani che auspicavano un’adesione del Friuli alla Jugoslavia di Tito), dalla scoperta di Gramsci al comunismo eretico e al tema della Resistenza tradita delle “Ceneri”, esplorando quella “mania delle origini” (così come la definisce Walter Siti) dal dialetto friulano, al sottoproletariato romano, al terzo mondo.

 

NON E’ UN PROFETA. Dall’entusiasmo creativo degli anni Cinquanta fino alla disperazione dei Settanta, Pasolini non va inteso come un profeta: “Diversamente da quanto affermano gli Scritti corsari, negli anni Settanta le lucciole non erano affatto scomparse, né del resto si sono estinte oggi”, sottolinea Tricomi, spiegando che con questa metafora Pasolini non “ambiva a pronosticare chissà quale evento. Piuttosto, intendeva convertire in un’immagine assolutamente lirica la percezione di una catastrofe storica – l’eclissi del mondo contadino, il tramonto della civiltà umanistica – per l’autore già consumatasi e, infatti, da lui esplorata maniacalmente nei propri lavori tutti. E sondata, in ciascuno di essi, traslitterandone poeticamente gli esiti tragici, se compito di un artista è appunto tradurre ‘nella giusta forma’, e rendere in tal modo ineludibili, quelle verità del presente che i contemporanei, pur avendole sotto gli occhi, si ostinano a misconoscere”. Un poeta civile e uno scrittore-intellettuale, citando Romano Luperini,  tra coloro “che non restano nei limiti dello specialismo, conoscono la grande cultura occidentale – storia, politica, filosofia – e le sue principali letterature e ricercano i nessi fra etica e società, leggendo in quelle e in questi i segni di un destino storico che si sforzano di interpretare e di influenzare non solo con un’attività di tipo giornalistico e saggistico, ma anche con l’opera narrativa e poetica e anzi proprio attraverso l’intersecazione di questi settori d’intervento”.

 

PETROLIO. Poeta civile che al contempo sente inevitabile l'eclissi di questo status, che “ama raffigurarsi prossimo al decesso o addirittura defunto”, non preconizzando la sua tragica morte ma alludendo metaforicamente al “radicale processo di delegittimazione culturale patito dalla letteratura, e dunque alla consapevolezza della propria crescente, in ultimo assoluta, marginalità civile di poeta e intellettuale”. Il suo “testamento” è Petrolio, “bulimico anti-romanzo, dalla vigorosa vocazione saggistica, che intende sondare i travestimenti identitari operati dal potere nei primi trent’anni di storia della repubblica italiana, nonché i mutamenti sociali intercorsi nell’Occidente tutto nello stesso arco di tempo”. Petrolio esprime nel segno del paradosso un tentativo di “letteratura-azione” che ammette nello stesso tempo l’“inutilità della poesia”. “E allora – sostiene l’autore del saggio - quanti pensano che i mandanti dell’omicidio di Pasolini siano da rinvenire non – idealmente – in quell’omofoba, incrudelita società italiana più volte accusata di barbarie dal poeta stesso, ma – realmente – nel Palazzo, si rifiutano di prendere alla lettera queste o altre ammissioni di sterilità intellettuale frequenti nei suoi lavori”. In conclusione, riflettendo sul modello di intellettuale incarnato da Pasolini, Tricomi sottolinea come la sua legittimità fosse fondata “su quel prestigio sociale della letteratura, e dello scrittore in quanto erede di un’intera storia culturale, che egli stesso riteneva però ormai incrinato e che il presente addirittura ammette di non voler più riconoscere. E poiché Pasolini non si è rivelato che questo, uno degli ultimi classici naturalmente politici consegnatici dalla letteratura del ‘secolo breve’, va da sé che si percepisca qualcosa di fin troppo artificioso, e persino di inconsapevolmente caricaturale, nei lavori, o nelle proposte ermeneutiche, di quanti rimodulano nei loro testi, o solo invitano ad attualizzare, specifici tratti della sua opera, della sua poetica”. (Roc – 2 nov)

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