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Coronavirus, distanza
non sia dimenticanza

Coronavirus, distanza <br> non sia dimenticanza

di Giovanna Lasalvia

Burioni, Capua, Galli.  

Brusaferro, Locatelli, Rezza.  

Ricciardi, Lopalco, Pregliasco.  

Crisanti, Ippolito, Palù.  

Un anno fa molti di noi non conoscevano neppure uno di questi nomi mentre oggi c’è chi li ripete a memoria. Un po’ come fanno i grandi tifosi della Roma quando elencano la formazione dello scudetto del 2001 o i nostalgici dei Mondiali dell’82.  

Da un anno, invece, non sentiamo chiederci: “Scende alla prossima?”, “Avete prenotato­?”, “Platea o galleria?”, “Hai spento il cellulare?”. Quanto mancano certe parole e quante invece prepotentemente sono entrate nelle nostre vite. Sfacciate si rincorrono sui giornali, sui social, in tv: tampone, quarantena, lockdown, variante, coprifuoco, focolaio, asintomatico, assembramento (che all’inizio qualcuno confondeva con assemblamento).  

Un anno fa le mascherine erano quelle di carnevale, l’ondata quella del mare, la curva non aveva certo a che fare con i contagi. Tornando con la mente a quei giorni viene quasi da sorridere: quanta ingenuità in quel “non andrò ma più dal cinese”, quanta miopia nel pensare “non potrà mai arrivare anche qui”. 

Un anno fa sui palazzi comparivano lenzuola con il disegno di un arcobaleno e la scritta “Andrà tutto bene”. Alcuni striscioni sono ancora lì,  spenti e sbiaditi. Chiaro è, invece, che no: non è andato tutto bene e tante cose sono cambiate.

E tante cose abbiamo imparato: lavare spesso le mani, mantenere il distanziamento, indossare la mascherina. Chirurgica, in tessuto, FFP1, FFP2: non riuscivamo a trovarne in giro neppure una, mentre ora in farmacia scegliamo modello e colore.  

Un anno fa non potevamo certo immaginare come sarebbe andato il 2020: una primavera inaspettata, un’estate speranzosa, un autunno inquieto, un inverno preoccupato. La scoperta di poter lavorare con la tuta e i capelli fuori posto, il vantaggio di dire addio a panini e tramezzini. L’amarezza di un caffè non condiviso. E’ stato l’anno senza baci e senza abbracci, senza balli e senza musica. L’anno senza parenti e amici, colleghi e conoscenti. L’anno del lavare e non toccare, resilienza e task force, canti sui balconi e caccia ai runner. Dell’uscire di casa solo per andare a buttare la spazzatura. L’anno della DAD, delle autocertificazioni, dei DPCM, del Natale in quattro o al massimo in sei: “E ora chi mangia tutto questo baccalà?”. 

E in tutti questi mesi tanti giorni fotocopia, notti insonni, ansie, lacrime, stress, occhiali appannati, pane e pizza fatti in casa, incontri virtuali, videochiamate. E poi la spesa on line e le riunioni su Zoom: accendi il microfono, spegni il microfono, non ti sentiamo, io ti sento. Tu mi senti? 

Un anno fa non potevamo immaginare che salvarsi avrebbe significato stare lontano dagli altri. Mentre oggi che pretendiamo normalità con gli occhi ancora lucidi per chi non c’è più, oggi che reclamiamo vaccini con addosso incertezze e interrogativi, oggi che ascoltiamo richieste di aiuto e a volte parole piene di rabbia, lo sappiamo. Lo sappiamo e abbiamo paura. E ci allontaniamo sempre di più. Un metro, un metro e mezzo, due metri, cinque, otto. Chissà qual è davvero la giusta distanza. Forse l’importante è che non diventi mancanza, freddezza, distacco: dimenticanza.  

Ricciardi, Lopalco, Pregliasco.  

Crisanti, Ippolito, Palù.  

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