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No al modello israeliano
per il cloud unico della P.A. 

No al modello israeliano <br> per il cloud unico della P.A. 

di Michele Mezza

Nel lontano 1967 un grande giornalista francese, Jean-Jacques Servan Schreiber, fondatore e direttore del prestigioso settimanale L’Express, pubblicò un libro profetico: La Sfida Americana. Nel volume documentava l’invasione tecnologica dell’Europa da parte del comparto informatico statunitense e concludeva così il suo avvertimento ad una politica già sorda e incompetente: “noi paghiamo gli americani perché ci comprino”. Sta accadendo la stessa cosa oggi per le strategie sulla digitalizzazione degli stati. 
Ieri il ministro della transizione tecnologica Colao, con grande baldanza, ha annunciato l’unificazione dei cloud della pubblica amministrazione nazionale. Una scelta indispensabile e auspicata da anni. Unificare le memorie significa rendere interoperabile i singoli comparti amministrativi, accelerando le procedure e razionalizzando le relazioni con i cittadini. Si tratta di una strategia fondamentale non solo per l’efficienza ma anche per l’autonomia e la sovranità del paese, che si incamminerebbe su una strada altamente sofisticata, adeguando la propria idea di governance e di cittadinanza. 
Rimane il dettaglio delle soluzioni tecniche. Nel digitale la forma è sempre contenuto, e attraverso gli standard delle architetture dei data base si decide chi deve sapere che cosa. Ora sembra che il ministro Colao, in ossequio ad un’improvvisa fretta, per attivare già nei prossimi mesi, al massimo nel prossimo anno, questa fondamentale soluzione non avrebbe pensato ad altro se non di affidare l’incarico ai punti di eccellenza del mercato tecnologico internazionale. Di chi parliamo dunque se non di Google, Amazon e Microsoft che controllano già largamente i data set dei sistemi pubblici nazionali ?
Si parla di un modello israeliano, riferendosi alla recente strategia assunta da quel paese per digitalizzare i propri asset pubblici. Israele, che vanta relazioni strette e intrecciate con gran parte della Silicon Valley americana, ha organizzato un bando articolato in 4 segmenti per procedere ad una rapidissima digitalizzazione dei sistemi, delle procedure, delle policy e delle gestione del flusso dei dati che lega lo stato ai cittadini. Dati che in quel paese, per le particolari condizioni geopolitiche, hanno un valore particolare, che tocca da molto vicino la sicurezza nazionale e la strategia militare. Per questo si fa ampio sfoggio di quel modello: se lo ha fatto Israele perché non potremmo farlo anche noi, fanno intendere dallo staff di Colao. 
Ci sono molti motivi per cui noi non dovremmo neanche pensare di seguire quella pista. Uno di questi lo spiegava proprio più di 50 anni fa il libro di Servan Shreiber quando scriveva che “il valore di una fabbrica o di uno stato non dipende dai suoi asset materiali ma dal controllo delle sue intelligenze”. Israele in base a uno statuto speciale gode di questo controllo anche attraverso accordi con i gruppi monopolisti della rete. L’Italia no. Secondariamente, Israele è in grado di far valore la clausola della sicurezza militare che noi non abbiamo neanche previsto. Infine l’ Italia è un paese con livelli di esposizione internazionale estremamente più alti che non Israele, e dispone di troppi comparti economici basati sulla competizione globale. Cedere dati sensibili sul consumo e la produzione anche di generi apparentemente frivoli, significa condannare il paese alla totale subalternità sia tecnologica che commerciale. 
Per questo bisogna usare i fondi del Recovery Fund per promuovere consorzi e strategie industriali mirate alla piena autonomia del paese nel campo delle memorie e delle intelligenze. Il destino che hanno avuto negli anni 80 i settori di largo consumo, con un processo di internazionalizzazione passiva, guidata dall’alluvionale pressione pubblicitaria che permise, tramite Berlusconi , ai grandi competitor esteri di poter godere di posizioni di vantaggio, comprando la pubblicità all’ingrosso tramite i centri media, e dunque sconfiggere e acquisire i gruppi italiani, lo dimostra.
Dobbiamo disporre di una funzionale autonomia e sovranità nell’organizzazione ed elaborazione dei dati comportamentali, quelli che nel suo ultimo testo Documanità, Maurizio Ferraris , chiama appunto “il sistema di registrazione della nostra vita”. 
Su questo nodo non sono ammissibili semplificazioni e scorciatoie: la politica e le parti sociali devono riprendersi ruolo e responsabilità: solo una reale discussione che metta al centro la capacità del paese di riorganizzare la propria pubblica amministrazione conservando e valorizzando i propri dati potrà darci la spinta per uno sviluppo realmente competitivo. E almeno evitare la beffa di dover pagare chi vuole comprarci.

(© 9Colonne - citare la fonte)