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Italo Calvino, la lezione italiana

Italo Calvino, la lezione italiana

Il viceministro del Lavoro, Michel Martone, ha un blog. Ma non è questa la notizia, la notizia è che nel blog di Martone, idealmente rivolto, s’immagina, alle giovani generazioni, si trovano proposte le Lezioni Americane di Italo Calvino. Al tempo della stesura di queste sei lezioni, che poi furono solo cinque per sopraggiunta morte, Italo Calvino in patria era Italo Calvino: una identità che voleva dire intellettuale impegnato, raffinato animatore culturale, ma anche popolare, con un passato da militante comunista (strappò la tessera del Pci nel 1957, spiegando le ragioni del suo divorzio politico in una lettera spedita all’Unità, ragioni legate ai fatti d’Ungheria). Ebbe un esordio, quel Sentiero dei nidi di ragno, che partiva dalla Resistenza piemontese e di quella raccontava. Insomma era il simbolo di una minoranza culturale, amatissima dal dopoguerra fino a quando molti intellettuali successivi ne decretarono l’estinzione, con l’avvento degli anni ’80. Grossolanamente l’egemonia culturale dei Calvino, Pasolini, Moravia, Eco, evapora non appena appare la sigla della prima televisione commerciale, e tutto lo scenario cambia morfologia. Comunque allora l’autore de Il barone rampante, fu il primo italiano scelto dall’Università di Harvard, nel contesto delle prestigiose Norton Poetry Lectures. Era un ciclo di conferenze che veniva assegnato ad un intellettuale internazionale di spicco. Forse non ci credeva, era come certi vincitori del Premio Nobel, lo stesso Eugenio Montale, che alla telefonata svedese, pensano sulle prime che sia uno sbaglio. Riferiscono le cronache che il poeta degli Ossi di seppia disse: "Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch'io?". Calvino fu preso per quelle lezioni da un’attività febbrile: voleva sintetizzare le categorie attorno a cui si poteva strutturare il dicibile (un certo vizio di schema preso dalle mode parigine l’ultimo Italo lo aveva contratto), e puntò su: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. L’ultima, quella di cui rimangono solo appunti, era la Consistenza. “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti di diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”; e in effetti era vero. C’erano più varianti e cancellature nei limpidi testi dell’autore del Visconte dimezzato, che nella densa scrittura di Gadda. Perché: “Mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nella dimensione di un epigramma”. Comprimere epopee in un epigramma non gli riuscì, ma quello scrittore ci ha lasciato i binari su cui continuare a viaggiare, in una contemporaneità che sembra non avere più mete ideali, se non quelle di sfangarla alla fine del mese. Ne Le città invisibili non troviamo un epigramma, ma un messaggio da tramandare: “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

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