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TULLIO DE MAURO, LINGUAGGIO COME RELIGIONE

TULLIO DE MAURO, LINGUAGGIO COME RELIGIONE

Se si considera la linguistica una religione, Tullio De Mauro è un profeta. Come la Bibbia è passata dalla civiltà latina a quella italiana per mano di una (non solo una) traduzione, così l’ex ministro dell’Istruzione, quando incontrò il testo sacro, “Cours de linguistique générale”, di quell’iniziatore magico che è stato Fernand de Saussure, lo rese “Il corso di linguistica generale”, traducendolo nella nostra lingua. Quel testo ha una genesi mitica: non fu mai scritto dall’autore. Furono i suoi più accorti studenti a raccogliere parti delle sue lezioni, a trascriverlo. La cosa alimentò il mito dell’opera, la sua sacralità. Un po’ come fu proprio dei vangeli, che raccontarono vicende narrate per interposto discepolo, il quale discepolo, non credendo alle sue orecchie, magnificò non un evento, ma un’eventualità – l’esistenza di Gesù - anche perché altrimenti sarebbero state biografie, non vangeli. Meno male che i discepoli del linguista svizzero (tre) andassero d’accordo, sennò avremmo avuto Il Corso secondo Sechehaye, quello di Riedlinger e quello secondo Bally, mentre invece De Mauro se ne trovò un’unica versione, grazie a dio. Accademico della Crusca, e presidente del Premio Strega, ha insegnato dalla sua cattedra romana a moltissimi studenti che oggi hanno a che fare con il giornalismo, la tv, l’editoria, tutti mestieri che richiedono un approfondimento della lingua, della propria lingua. De Mauro, oltre ad insegnare, innescava passioni. Quando sei chino su un libro di linguistica e quel libro non è Saussure, vuol dire che stai affrontando un altro autore la cui diffusione italiana deve molto a De Mauro: Ludwing Wittgenstein. Wittgenstein per la linguistica (ma più in generale per la filosofia del linguaggio) è stato un po’ come Jim Morrison per la musica pop; una miscela ammaliante di rock e jazz - dicevano allora - una cosa quasi impossibile, per cui l’autore del “Tractatus”, fuori dai suoi testi più ardui, si fa leggere come uno scrittore (e l’accezione di scrittore è tutt’altro che diminutiva). Una vita altrettanto sul bordo della linea, diremmo traducendo letteralmente l’espressione bruttamente psicologica borderline, tra il filosofo ed il rocker. Lèggere passaggi come: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito)”, è come stare (quando le leggi a vent’anni) nella folla dei concerti dei Doors, a fine anni Sessanta (avendo vent’anni), mentre Morrison si contorce sul palco. E’ lo stesso spettacolo. “Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più”. Non ti raccapezzi più. Uno smarrimento assurdo perché è un prodotto esso stesso del linguaggio. Uno smarrimento che risuona. “Vocabula sunt notae rerum”, le parole sono le note delle cose. Così valeva per gli antichi. Valeva forse per Jim, non più, troppo elementare e trascendente per Saussure, per De Mauro che ce l’ha messo sulle scrivanie, Saussure. Per Wittgenstein? La questione è aperta, e lo sarà sempre. Apri il “Tractatus” e leggi due frasi, nette: la prima è “Il mondo è tutto ciò che accade”. L’ultima, la settima “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Ma solo When the music’s over, e quando le parole smetteranno d’essere le note delle cose.

Ps: questo pastone di nozioni confusamente accademiche, la concessione del tutto arbitraria dell’associazione Morrison-Wittgenstein, è solo un omaggio di quanto imparato stando tra le fila degli studenti di De Mauro. Lì è stata lui la star.

 

Valerio de Filippis

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