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QUANTO SONO PERICOLOSI
GLI JIHADISTI ITALIANI

QUANTO SONO PERICOLOSI <br> GLI JIHADISTI ITALIANI

di Claudio Galzerano

Chi sono, quanti sono, dove stanno, chi li ispira, come operano? E sono davvero pericolosi gli jihadisti italiani? Sono queste le domande cui l’Antiterrorismo deve rispondere, col minore margine di approssimazione possibile. E che le risposte non siano semplici né scontate sembra evidente. La comunità del jihadismo italiano è davvero variegata. Il risultato di più di venti anni di raccolta informativa su questo tema consente di mettere a fuoco un quadro solo all’apparenza nitido.
Tutto inizia con la diaspora degli estremisti religiosi egiziani, tunisini, algerini, marocchini e libici che, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, sbarcano in Europa, spesso approfittando di filiere già all’epoca in grado di facilitare l’arrivo sulla sponda sud del Mediterraneo di consistenti blocchi di migranti clandestini. In Italia gli algerini si concentrano per lo più a Napoli, i tunisini a Bologna, i marocchini a Torino, Varese e Cremona. La palma di capitale del jihadismo italiano spetta tuttavia a Milano, dove gli emissari egiziani della Jamaa Al Islamiya si impossessano dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner, da allora in poi al centro di una teoria di indagini sull’estremismo islamico che arriveranno fino ai giorni nostri.
L’approdo in Italia di questa colonia radicale coincide con la creazione di strutture di supporto logistico ai vari jihad che gli imam nordafricani lanciavano contro i faraoni di turno dei loro Paesi, colpevoli di non conformare l’architettura dello Stato ai dettami della sharia, la legge islamica. Raccolta di fondi, fornitura di documenti falsi, tutela dei latitanti: nulla quindi che potesse mettere a diretto repentaglio la sicurezza nazionale. Ben diversa la situazione in Francia, dove con l’intervento dei Reparti speciali del Gign all’aeroporto marsigliese di Marignane (1994) e l’ondata di attentati del ‘95-‘96 si certificava l’esportazione in Europa del programma terroristico dei Gruppi islamici armati algerini. Fateh Kamel, il terrorista canadese di origine algerina condannato per il suo supporto logistico e finanziario alla cellula responsabile degli attentati alle metropolitane di Parigi, affermò di essere venuto nel nostro Paese in quel periodo per cercare il sostegno dei militanti dei Gia, ma di aver trovato solo i più moderati dissidenti del Fronte islamico di salvezza, ancora dubbiosi se intraprendere o meno la strada della violenza.
La vocazione della comunità radicale islamica italiana al sostegno logistico e ideologico dei fronti di jihad ovunque aperti nel mondo sarà confermata dalle indagini degli anni a venire. Gli egiziani milanesi dell’Ici di viale Jenner sono la spina dorsale del Settimo battaglione dei mujahedin arabi di stanza nella città bosniaca di Zenica. Il loro referente spirituale, Anwar Shaaban, ne diventa uno dei comandanti in capo, trovando la morte sul finire del 1995, al confine con la Croazia, prima che potesse essere eseguito nei suoi confronti un ordine di custodia cautelare A Cremona, l’imam marocchino della moschea di via Massarotti, Ahmed El Bouali, si occupava di redigere lo statuto del “Gruppo islamico combattente marocchino”, codificando le regole d’ingaggio della galassia jihadista nordafricana. Sottrattosi alla giustizia italiana, troverà la morte in Afghanistan all’indomani dell’11 settembre. Nello stesso periodo si trasferisce in massa nell’area afghano-pakistana pure un nucleo di tunisini che a Bologna, dal ‘96 al ‘98, aveva impiantato una piccola, ma efficiente centrale di supporto per mujahedin reduci dalla Bosnia. Diversi di essi finiranno a Guantanamo, da dove usciranno dopo diversi anni senza aver deposto la speranza di vedere trionfare la causa jihadista. E sempre a Milano il commando partito dal Belgio per assassinare il comandante Massud riceverà dal tunisino Essid Sami il know-how necessario per falsificare i visti necessari per arrivare al cospetto del Leone del Panshir e fargli esplodere in faccia un ordigno camuffato all’interno di una telecamera. Così il jihadismo ha attecchito in Italia. È singolare constatare come le prime persone di passaporto italiano coinvolte nelle reti estremiste presenti nel nostro Paese siano delle donne. Un jihad italiano declinato al femminile, dunque, che vede protagoniste alcune convertite unitesi in matrimonio con estremisti islamici, dei quali finiranno per condividere sia le sorti sia le convinzioni radicali, settarie e antioccidentali. Paradigmatico il caso della milanese Barbara Farina, compagna del senegalese Fall Mamour, il celeberrimo Imam di Carmagnola, che nel 2003 non esitò a raggiungere il suo uomo a Kaolack quando Giuseppe Pisanu, allora ministro dell’Interno, ne decretò l’espulsione per motivi di sicurezza nazionale. Proprio in quegli anni la comunità jihadista italiana iniziò a traslocare dalle moschee al web, trovando sulla rete un’agibilità virtuale che con tutta evidenza gli veniva negata nella vita reale. Fu proprio la coppia Farina/Mamour che diede vita al primo blog ultraradicale in italiano, subito congelato dalla magistratura di Verona, che portò alla luce una comunità di nostri connazionali innamorati di Bin Laden e della guerra santa islamica. Altre risultanze, acquisite negli anni a venire sulle ceneri di quella indagine, indicheranno come la pattuglia degli italiani attratti da una visione integralista e ribellista dell’islam era destinata a ingrossarsi. Il caso del convertito genovese Giuliano Delnevo, ucciso in Siria giusto un anno fa mentre combatteva assieme ai guerriglieri ceceni della Khatibat Al Muhajirin, rappresenta la punta di questo iceberg.
Nella parte sommersa del jihadismo italiano oltre ai convertiti troviamo ancora vecchi arnesi arrivati da noi negli anni ‘90 e altri “rinati” nell’islam, perlopiù ragazzi figli di immigrati, protagonisti di crisi identitarie che li hanno spinti a trovare nell’esasperazione della religione la risposta alle loro inquietudini. Per ora sono davvero pochi, se paragonati alle cifre di altri Paesi europei, i membri della comunità jihadista italiana recatisi in Siria per prendere parte al conflitto. Nondimeno, resta aperta una duplice sfida per la sicurezza: da un lato evitare che essi raggiungano il teatro dei combattimenti, dall’altro che, una volta rientrati, possano sfruttare il carisma e le conoscenze acquisite per fungere da volano ai processi di radicalizzazione e reclutare altri militanti.
(Claudio Galzerano è Primo dirigente della Polizia di Stato. Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Formiche)

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