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IL FRANCHISING DEL TERRORE
DIETRO LE STRAGI DI PARIGI

IL FRANCHISING DEL TERRORE <br>DIETRO LE STRAGI DI PARIGI

di Francesco Bascone

La domanda che tutti si pongono è se vi sia una regia dietro i piani dei terroristi di Parigi. Premettiamo che la ipotetica risposta positiva beneficia di un pregiudizio favorevole, poiché quando gli organi dello stato si sono lasciati prendere alla sprovvista da un’azione terroristica tendono in genere ad attribuire plausibilità alla tesi di una macchina agguerrita e invisibile contro cui devono lottare.

A ciò si aggiunge la retorica delle redazioni giornalistiche e dei leader politici: la tentazione di proclamare ogni volta “questa è una guerra!” è irresistibile. Anche l'iperbole, che nessuno ha osato contestare, per cui l'impresa dei due fratelli franco-algerini è stata presentata come “le torri gemelle della Francia” si spiega con questa sindrome.
Fatta la tara a tali eccessi retorici, la doppia strage compiuta dai fratelli Kouachi e dal loro sodale non segna alcun salto di qualità nello scontro fra integralismo musulmano violento e società laiche. Scontro che ha conosciuto massacri ancora più sanguinosi a Madrid e Londra, per parlare solo dell'Europa.

Prescindendo dal numero delle vittime, rappresenta forse una svolta in quanto sfida dell’“impero del male” jihadista alle società liberal-democratiche, impersonate dalla loro capofila, la Repubblica francese. Questo spiegherebbe l'accorrere di tanti capi di stato e di governo alla straordinaria manifestazione convocata dal presidente François Hollande?

Nell'attesa del completamento delle indagini, nulla indica che la duplice azione di guerriglia urbana di Parigi sia parte di un grande piano strategico ordito dalle “centrali del terrore”, Al-Qaida o autoproclamatosi “stato islamico”. Anzi, proprio il fatto che i responsabili dell’attentato alla redazione della rivista Charlie Hebdo si richiamassero ad Al-Qaida nello Yemen e il massacratore che ha fatto la strage dentro il supermercato di ebrei allo “stato islamico” sembra accreditare la tesi del “franchising”.

I giovani responsabili di questi attentati nascono e crescono nelle nostre società. Spinti da imam estremisti a fare la scelta jihadista - spesso, ma non sempre, dopo aver ottenuto addestramento, armi e denaro in uno dei focolai medio-orientali del terrorismo - passano all'azione nei loro paesi di residenza. Per nobilitare la loro impresa vi appongono uno dei marchi famosi, a seconda degli aiuti ricevuti, o delle loro simpatie. In Europa, la molla del terrorismo di matrice islamica è, salvo eccezioni sempre possibili, l'iniziativa di singoli o piccoli gruppi di zeloti, decisi a “vendicare il Profeta”, a punire società peccaminose, a rifarsi per umiliazioni subite, a sfogare contro ebrei innocenti la propria indignazione per i bombardamenti israeliani su Gaza e l'occupazione della Cisgiordania.

Al-Qaida approfitta della disponibilità di questi volontari finanziandoli e incoraggiandoli, senza poterli inquadrare in un piano strategico. Grandi operazioni pianificate dal quartier generale, come fu l'11 settembre, sono certo sempre possibili, per esempio se Al-Qaida o “stato islamico” ritenessero di doversi vendicare per un attacco aereo o per l'uccisione di uno dei rispettivi leader. Sino ad ora però, gli attentati sono stati firmati soprattutto da “lupi solitari” o piccoli gruppi locali riforniti di denaro e armi da sponsor mediorientali.

La distinzione è rilevante ai fini della strategia anti-terrorista. Qualora il pericolo, in Europa, emanasse essenzialmente da iniziative dello “stato islamico” o del successore di Bin Laden, sforzi e risorse si dovrebbero concentrare sull’intelligence e l'infiltrazione, al limite sugli assassinii mirati, cari ai governi statunitense e israeliano. Dato che i terroristi pronti a rischiare la vita sono figli di immigrati convertiti e diventati estremisti, l'azione di prevenzione deve però concentrarsi soprattutto sulla fase della radicalizzazione.

Ciò comporterà scelte delicate fra sicurezza e piena libertà di insegnamento. Quest'ultimo principio non deve impedire di rafforzare la legislazione contro l'istigazione alla violenza, e di applicarla rigorosamente a chi predica il jihadismo e l'odio verso gli ebrei. E anche internet, che è ormai il principale veicolo della propaganda salafita e della diffusione del know-how terrorista, non può essere un tabù. La stragrande maggioranza dei concittadini e immigrati di fede islamica è evidentemente disgustata dagli atti di terrorismo. Le interviste a molti giovani delle banlieues mostrano però una dose di comprensione per i “compagni che sbagliano”. Perciò dobbiamo acquisire la collaborazione attiva degli esponenti delle comunità musulmane per una costante campagna contro quella “neutralità benevola”. Non basta che si dissocino dichiarando “Questo non è Islam!”. Predicatori, maestri, Organizzazioni non governative, pubblicisti, bloggers e cantautori musulmani dovrebbero impegnarsi in questa campagna di denuncia degli inquinamenti jihadisti - nelle moschee, scuole, social media, centri ricreativi. Questo è nell'interesse delle stesse comunità islamiche che rischiano altrimenti di divenire oggetto di risentimenti e sospetto da parte di una fetta crescente della restante popolazione. (da affarinternazionali.it)

(23 gen)

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