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SORPRESA: NON C’E’ PIU’
IL PARTITO NAZIONALE

SORPRESA: NON C’E’ PIU’ <br> IL PARTITO NAZIONALE

di Franco Rositi

Ci sono buone ragioni per non più sopportare la diffusione (nei corsivi dei quotidiani, nelle chiacchiere dei talk show) della compiaciuta idea che la nostra sia una società “liquida”. Come ogni tentativo di descrivere una società mediante un solo carattere, la metafora di Bauman resta un mot d’esprit costruito ad arte per catturare la pigra immaginazione di tanti cosiddetti “osservatori sociali” e del loro pubblico di semi-istruiti. Tuttavia, il termine “liquido” può sembrare oggi adatto almeno per parlare di un attributo saliente di quella particolare popolazione che in Italia è insediata nel sistema politico oppure si agita alla sua periferia.
Le elezioni regionali del 31 maggio 2015 sono quasi sempre commentate, in questi giorni post-elettorali, con riferimento alle ragioni, agli umori e alle opzioni di quell’ente inesistente che è il “popolo” (di elettori e di astenuti): si cerca di comprendere il suo verdetto, di decifrare il senso delle sue maggioranze, di individuare uno “spirito del tempo” che unificherebbe le sue scelte. Si dovrebbe invece maggiormente riflettere sui caratteri dell’offerta elettorale, sul menu che è stato offerto dalla variopinta folla di cucinieri politici alla degustazione elettorale. Ne risulterebbe un dato abbastanza sensazionale: mai come oggi nel nostro paese la periferia del sistema politico ha mostrato tanta confusa vivacità e così irruenta indipendenza nei confronti delle dirigenze nazionali.
In Liguria abbiamo il caso Pastorino. Che il centro-destra sia qui riuscito a coalizzarsi seguendo un preciso copione dettato da un accordo di vertice si deve essenzialmente alla circostanza che le chanches di successo, incrementate dalla divisione del centro-sinistra, sono state un incentivo alla cooperazione. Ma che l’unità del centro-destra possa qui durare a lungo è molto dubbio per chi conosca la complessa stratificazione del ceto politico locale, i suoi intrecci con l’ipotetico partito della nazione di Renzi, le sue attitudini trasformistiche, le difficoltà degli orientamenti belligeranti leghisti a farsi governo con un benpensante come Toti.
In Veneto abbiamo il caso Tosi. Il suo 11% è stato sottovalutato dai commentatori (come la cifra molto analoga di Pastorino). Che il dissidente di un partito che è abbastanza organizzato come la Lega e che è nella mani di un solido leader, riesca a segnare una presenza che sarà tutt’altro che irrilevante nella prossima confusa stagione politica, è un fatto che ugualmente mostra la vivacità della periferia politica italiana. E a Venezia avremo forse come sindaco quel Casson cui sono attribuite simpatie civatiane o, se si vuole, antipatie verso Renzi. E se non lui, un homo novus dell’imprenditoria locale.
In Campania abbiamo il caso della vittoria di un leader tutto locale come De Luca, che si è per così dire autocostruito in opposizione a qualsivoglia ragionevolezza “nazionale”, sfidando la volontà centrale del partito, ottenendo alla fine da questa un disperato consenso.
In Puglia si è consumata la tenuta unitaria di Forza Italia. Ma deve far riflettere anche l’istinto autarchico del vincitore Michele Emiliano, solido leader locale, dichiaratosi renziano ma già rivelatosi, all’indomani del voto, come disponibile a un rapporto positivo, tutt’altro che renziano, con i M5S.
Come si vede, ci siamo soffermati sui casi più eclatanti. Abbiamo per esempio trascurato di dire qualcosa sugli insuccessi dei candidati “centrali” del PD, su un governatore PD, Gian Mario Spacca, che nelle Marche si trasferisce dalle parti di Forza Italia, sulle innumerevoli liste civiche (in elezioni regionali, non comunali!). I casi ricordati sono tuttavia già abbastanza numerosi, e diffusi sull’intero territorio nazionale, per indicare qualcosa di strutturale: una forte volatilità del partito nazionale e un forte protagonismo di quel pulviscolo di personale politico (leader grandi e piccoli, faccendieri, portaborse, militanti appassionati, amministratori) che si muove alla periferia del sistema politico italiano. Sembrano restare come partiti centrali solo la Lega e il M5S, ma anche questi, come è noto, sono attraversati da profonde dissidenze e sembrano ricompattarsi solo come partiti di protesta (a eccezione della Lega nel Veneto, ma il suo leader locale, Zaia, è persona molto indipendente, e del resto la Lega non è ancora affatto un partito nazionale: si veda il suo povero 2% in Puglia).
Il tema, mi sembra, deve diventare quello dello sfaldamento dell’idea di partito nazionale. Ciò non dipende dal “popolo”. L’enorme cifra delle astensioni è un dato che si va ripetendo, non è certo una novità. Davanti ai segni di tanta disaffezione verso la politica, i grandi partiti nazionali non hanno messo in atto nessun serio correttivo: hanno confidato, quanto ingenuamente!, sulle virtù aggregative di un nuovo costrittivo sistema elettorale, sulla popolarità di particolari scelte politiche, sul carisma dei leader. Sono invece da rivedere alla radice composizione sociale, qualità, modi di selezione del ceto politico in una società ormai individualista (il che non significa automaticamente egoista: in Italia abbiamo, secondo gli ultimi dati, almeno sei milioni e mezzo di persone che almeno per un giorno al mese praticano assistenza volontaria).
Se non si confida nella magia di un capo, ne dovrebbe derivare un attento ripensamento del modo-partito a livello innanzitutto periferico, laddove ora si agita, in stato abbastanza confusionale, una folla di interessi e di idealità. Non si tratta, come si è affrettato a dire Renzi a commento di questi risultati elettorali, di “vedere”, di “capire meglio” ecc. quel che accade nelle profondità della provincia italiana: un premier che vorrebbe esportare a livello del governo centrale il modello del governo dei sindaci dovrebbe già saperne qualcosa. Si tratta invece di organizzare un partito nazionale a partire da una periferia che è ricca di “anime” e di “spiriti animali” non meno della piccola folla dei parlamentari, e di organizzarlo nelle opere e nei saperi in modo che si costruiscano alcune convinzioni collettive e qualche solida volontà generale attenta ai particolari.
Questa era l’ispirazione, se l’abbiamo ben intesa, di Luciano Barca: o si tratta di una aspirazione possibile, realistica – o dovremmo rassegnarci alla casualità della politica, al centro e alla periferia.

 

 

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