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Malattie rare: rivolgersi per tempo a centri di eccellenza

Malattie rare: rivolgersi per tempo a centri di eccellenza

di Franco Bonsignori

Finalmente una buona notizia per tutti coloro che sono affetti da patologie genetiche: da oggi anche l’Italia dispone di un rapporto annuale sulle Malattie rare. Il rapporto, curato dalla Federazione Uniamo, è stato presentato ufficialmente nei giorni scorsi presso la Camera dei Deputati ai parlamentari più impegnati su questo fronte strategico per il Sistema sanitario nazionale. Finalmente è disponibile (anche sul web) un quadro organico attendibile su organizzazione socio sanitaria, assistenza, ricerca, formazione e informazione per gli oltre 670.000 affetti da malattie rare.

Già quest’ultima cifra (più di un italiano su 100 è un malato raro …) dimostra quanto sia significativa la fotografia dettagliata e sistematica promossa da Uniamo. Non si può fare a meno, tuttavia, di sollevare una domanda, semplice ma indispensabile: perché il rapporto ufficiale parla, anche nel titolo, di  “malattie rare”?

Prima osservazione: se questi pazienti accertati nel nostro paese sono più di mezzo milione, come possono essere considerati rari? E poi che senso ha definirli malati, dato che il loro stato patologico è permanente in quanto dipende da un’alterazione genetica che non è passeggera (come lo sono i malanni) bensì stabile? Difatti, quando gli addetti ai lavori si parlano tra loro, non usano quasi mai la parola “malattia” ma si riferiscono – più correttamente – a termini come “condizione” o “anomalia genetica”. Il malato raro, in sintesi, non è un malato vero e proprio ma una persona che a causa di un malfunzionamento del proprio DNA, si ritrova, per così dire, con un programma genetico specifico, distinto da quello normale, che va in una certa direzione, a una certa velocità. E dunque non si può dire, tecnicamente, che quella certa persona è affetta da una di quelle alterazioni fisiologiche transitorie che aggrediscono in un certo momento il soggetto sano e che sono definite malattie.

Questa considerazione serve a chiarire perché gli specialisti evitano il termine (in qualche modo demoralizzante ed oggi quasi politicamente scorretto) di “malattia” ma non spiega perché, all’atto pratico, come nel caso delle campagne Telethon o anche della pubblicazione del benemerito Rapporto Uniamo, spunta regolarmente il sostantivo “malattia”, che è un po’ il biglietto da visita delle sindromi cromosomiche.

Una spiegazione possibile, secondo noi, è che queste condizioni genetiche - nel comune buon senso e nel sentimento profondo di chi ha la sfortuna d’incapparci - sono ritenute comunque bisognose dell’intervento del “dottore”; se non altro per un angoscioso bisogno di normalità o magari per trovare nello stesso ”dottore” un capro espiatorio. In altre parole, il contesto familiare e sociale sa benissimo, nel profondo, che il cosiddetto malato raro va semplicemente curato.

E’ vero che l’alterazione di uno solo delle migliaia di geni  presenti in ciascuna dei miliardi di cellule che compongono il corpo del malato raro, non determina di per sé una malattia, ma soltanto una condizione fisiologica. Però anche la salute è una condizione fisiologica: una condizione in cui uno si trova bene e che non vuole abbandonare. Pertanto diventa abbastanza inutile precisare che la malattia rara non è una malattia: tanto, se una persona sta male vuole in qualche modo guarire. La stessa vecchiaia, ad esempio, è una condizione o una malattia? Noi non sappiamo rispondere a questa domanda; sappiamo solo che il vecchio muore anche per impercettibili alterazioni fisiologiche che quand’era giovane non avrebbe nemmeno avvertito. Resta il fatto che la cura è inevitabile, per il vecchio, per il malato raro, così come per il malato ordinario, che un bel giorno si prende una malattia cardiaca, respiratoria o altro. Senza contare che nessun malato, nemmeno quello raro, si ammala da solo: sempre ci si ammala con tutta la famiglia, che spesso, sotto sotto, trova in qualche modo utile che il suo membro più debole sia un handicappato: per convincersene basterebbe guardare con attenzione il film “I mostri” di Dino Risi. E’ per questo che sempre si richiede - specialmente nei malati rari - il paziente “esperto” e l’alleanza con la sua famiglia.

La bussola per orientarci sul terreno della cura - come peraltro è stato autorevolmente evidenziato durante la presentazione del rapporto – sono i sintomi. Anche il sintomo è diventato una parola sgradita a certa retorica consolatoria (e un tantino, ipocrita) che pure è presente nelle famiglie e nelle associazioni di malati rari. Certo non sono campati in aria i soliti discorsi che tutti siamo diversamente abili, che le persone non possono essere ridotte ai loro sintomi eccetera. Certo, secondo noi, tra il sintomo e la persona c’è la stessa differenza che c’è tra un’arancia e una pillola di vitamina C. Ma questo vale per tutti i malati, non solo quelli rari. Recentemente ha commosso molti italiani l’appello di Emma Bonino a non confondere la persona affetta dal tumore con il tumore. Siamo tutti d’accordo; ma guai a dimenticarsi che i sintomi esistono e sono più forti di tutte le belle parole. Basta pensare ai disagi cognitivi e comportamentali provocati dalle due sindromi genetiche maggiormente responsabili del ritardo mentale: la sindrome (genetica ma non ereditaria) di Down e la sindrome (genetica ed ereditaria) della x fragile.

Nel caso della x fragile, ad esempio, sono presenti sintomi organici e sintomi psichici. Tra questi ultimi, ve ne sono alcuni che sono considerati senz’altro degni di un formale intervento medico: come l’aggressività e le varie forme di chiusura autistica, che generalmente vengono affrontate  con terapie specifiche tra cui quella – secondo noi assai efficace – degli psicofarmaci. Invece, altre anomalie, per così dire meno allarmanti, sembrerebbero quasi tollerabili, o magari confinate nel novero dei sintomi incurabili, come ad esempio il non saper farsi la barba o allacciarsi le scarpe o guidare la l’automobile o fare la spesa al supermercato eccetera. In realtà, tutte queste anomalie - anche quelle presenti ordinariamente nei cosiddetti normali - meritano sempre di essere curate da medici o terapeuti clinici;  proprio perché il sintomo è un concetto puramente culturale: c’è solo quando una certa cultura lo considera come tale.

Difatti si profila, secondo noi, un’importante differenza tra i sintomi della malattia rara, e quelli soliti della normale malattia. Ordinariamente il sintomo ha dietro si sé una malattia: invece il sintomo dei malati rari è un sintomo che ha dietro di sé non una malattia ma un altro sintomo, cioè un’anomalia genetica. L’alterazione genetica che provoca il sintomo evidente nella persona non è una malattia ma essa stessa un sintomo, un sintomo nascosto in tutte le cellule di quella persona. La mutazione di un cromosoma, ad esempio, non è una malattia ma semplicemente un sintomo di qualcos’altro. Ecco dunque una possibile distinzione: la malattia rara non è la causa di sintomi, come le altre malattie, ma è essa stessa un sintomo. O meglio: il sintomo invisibile di passerella  di sintomi appariscenti, esibiti, clamorosi.

Questo ragionamento ci porta a concludere - a costo di essere fraintesi - che la malattia rara ha una natura anche religiosa. Infatti, il programma genetico è preesistente rispetto alla persona ed esiste ancor prima che i due gameti, maschile e femminile, s’incontrino e diano origine alla persona. Prima dunque c’è il mistero, poi il malfunzionamento del gene. E il fine ultimo del terapeuta, in particolare del medico genetista, sarà quello di considerare anche l’enigma della mutazione o del guasto cromosomico. Egli dovrà cioè avere il coraggio di confrontarsi anche con una dimensione più propriamente religiosa. Del resto, nella nostra cultura di derivazione greca, la medicina ha sempre un fondamento religioso: di tipo sciamanico quella che discende dal culto di Asclepio, di tipo più laico (ma sempre fideistico) quella che discende da Ippocrate. Peraltro lo stesso Gesù che nacque, visse e morì in Palestina (e qualcuno disse che risorse) faceva il medico.

Quale può essere, operativamente e scientificamente, una risposta adeguata alle malattie rare? A  nostro avviso lo ha indicato molto bene il dotto dibattito che ha accompagnato a Montecitorio la presentazione del Rapporto sulle malattie rare. Una volta stabilito che la malattia rara è una cura che richiede l’alleanza di vari medici e genetisti nonché di pochi altri clinici come lo psicoterapeuta o l’operatore delle tecniche riabilitative, risulta abbastanza illusorio, o comunque difficilissimo, che tutti i medici di famiglia e tutti specialisti che dirigono i vari laboratori d’analisi, siano edotti di tutte le    malattie genetiche oggi conosciute, quando magari i loro ambulatori sono pieni di diabetici, allergici ed altri malati purtroppo non rari. D’altra parte, probabilmente nessuno al mondo conosce a memoria i nomi, in genere assai bisbetici, delle settemila malattie rare finora scoperte. E’ fondamentale, piuttosto, che tutti i medici (e questo lo possono fare solo loro) abbiano la capacità di osservare attentamente, con dedizione, la passerella dei sintomi di ciascun malato, di ciascuna persona in carne ed ossa che presenta un disagio; in modo da saper riconoscere alla fine del corteo  una sospetta presenza di anomalie ingiustificate. E quindi imparare a rivolgersi per tempo a uno dei qualificati centri di eccellenza sulle malattie genetiche presenti in Italia. Questo sarebbe, a nostro parere, la prima vera esigenza formativa nel campo delle malattie rare.

(27 - lug)

 

 

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