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direttore Paolo Pagliaro

30 ANNI FA LA MAFIA UCCIDEVA BORSELLINO

30 ANNI FA LA MAFIA UCCIDEVA BORSELLINO

Erano le 16.58 del 19 luglio 1992. Un tipico pomeriggio estivo a Palermo; chi poteva aveva già raggiunto la spiaggia di Mondello per un bagno rinfrescante, chi invece si trovava in città cercava di combattere la calura come meglio poteva. Eppure, alle 16.58, il caldo divenne ancora più insopportabile, come se il cielo avesse preso fuoco. Ed era proprio quello che era accaduto in un quartiere residenziale sconosciuto a più ma che, da quel momento, sarebbe entrato nella memoria collettiva: via Mariano D’Amelio. Una Fiat 126, imbottita con quasi un quintale di Semtex-H, un esplosivo al plastico, venne fatta esplodere al civico 21 di quella via, proprio mentre un uomo dal portamento distinto si stava avvicinando al citofono del civico: era il magistrato Paolo Borsellino. L’esplosione fu percepita anche nei quartieri intorno a via D’Amelio, una potenza inimmaginabile che strappò alla vita, oltre a Paolo Borsellino, anche gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, che sarebbe divenuta tristemente celebre come la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio.

 L’omicidio di Paolo Borsellino, ucciso mentre si stava recando dalla madre Maria Pia Lepanto e dalla sorella Rita, era il secondo colpo che Cosa Nostra infliggeva allo Stato, dopo la strage di Capaci avvenuta nemmeno due mesi prima, in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone, eliminando di fatto i suoi più strenui avversari. La devastazione alla quale si erano trovati davanti i primi testimoni accorsi sul posto, tra cui il giudice Giuseppe Ayala, pubblico ministero al primo Maxiprocesso, fu qualcosa di indicibile, l’esemplificazione della brutalità e della spietata violenza della mafia nei confronti dello Stato e di due dei suoi più degni rappresentanti. Lo sconforto coinvolse l’intera nazione che, probabilmente, si era trovata a pensare, mentre i telegiornali dell’epoca mandavano a ripetizione immagini dall’inferno di via D’Amelio, le stesse parole del capo del pool antimafia Antonio Caponnetto rilasciate a un giornalista dopo aver visto la salma di Borsellino: “È finito tutto!”. 

 In realtà, non finì proprio nulla: da quella strage in poi cominciò una nuova stagione per l’Italia fatta di indagini, processi, trattative, arresti, agende rosse di cui non si è più saputo nulla, fino all’ultimo atto, il 20 ottobre di due anni fa, quando la Corte d’Assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo (in contumacia) il latitante Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via D’Amelio. Nonostante l’eliminazione fisica di Falcone prima e di Borsellino poi, Cosa Nostra non riuscì mai ad annientare le battaglie e i messaggi dei due magistrati, improntati sulla legalità e sul rispetto, logiche assolutamente lontane dai codici criminosi di Cosa Nostra. Messaggi che non tramontano ma che anzi vengono rilanciati ogni anno, nelle commemorazioni, come quella di questo trentennale, e nelle testimonianze di chi tiene vive le battaglie di Falcone e Borsellino, uomini che hanno cercato di rendere migliore il Paese, elevati all’immortalità da chi, in quel Paese migliore, continua a crederci. (FeB - 19 lug)

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