“E pensare che io gli Eagles of Death Metal fino a quel momento non li avevo nemmeno mai sentiti!”. Così Gaèlle (non ha voluto rendere noto il cognome) mentre, in una intervista a La Stampa, ricorda l'inferno vissuto nel Bataclan il 13 novembre 2015, quando Parigi e lo Stade de France finirono sotto attacco da parte di un commando jihadista che portò alla morte di 132 persone. Lei quella sera si trova nella sala concerti assieme a Mathieu, il suo compagno e si è ritrovata sotto il fuoco di tre jihadisti armati di kalashnikov: “Ci siamo beccati le prime raffiche” ricorda oggi la donna, che porta su di sé i segni permanenti di quell'orrore. Il suo fidanzato perde subito la vita, mentre lei riceve due pallottole, una al braccio sinistro e l'altra alla mandibola, prima di cadere a terra, senza perdere i sensi: “Ho fatto finta di essere morta mentre continuavano a sparare, uno di loro mi è passato sopra senza nemmeno accorgersi che ero ancora viva”. Solamente dopo due ore e mezza, passate rimanendo immobile tra i corpi senza vita, Gaelle si dirige verso l'uscita e viene soccorsa. I primi passi di un calvario che dura ancora oggi. “Ho subìto in tutto 56 operazioni, ma so che dovrò farne altre per il resto della mia vita”. Gaèlle ha deciso di incontrare un ex terrorista islamista: “È stato emotivamente molto intenso e forte. È durato un paio d'ore, passate velocemente. Gli ho chiesto informazioni sul suo percorso, dopodiché gli ho raccontato quello che mi è successo al Bataclan e tutto il processo di ricostruzione delle parti del mio corpo colpite. Mi sono ritrovata davanti una persona totalmente differente da quella che mi aspettavo”, “che ha fatto un lavoro su sé stesso, seguendo un percorso psichico orientato verso il dialogo. E’ stata un'esperienza molto perturbante. Il mio non è un approccio orientato verso il perdono. Voglio solo vedere se resta qualcosa di umano nelle persone che hanno provocato tutto quel male. Sono rimasta molto stupita nel trovare qualcuno di normale, capace di provare delle emozioni. Un uomo qualunque, cresciuto in un quartiere difficile, in un contesto che l'ha portato a delinquere, ma che ha una famiglia con dei figli. E questa normalità che mi ha destabilizzato”. E conclude: “La ricostruzione delle parti ferite avanza in parallelo con quella psichica. Quando un'operazione chirurgica va bene mi sento meglio, ma quando va male ho delle ricadute. E’ necessario trovare un equilibrio”. (12 nov - red)
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