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La “Bella Gigogin” e la storia delle barricadere di Milano

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

La “Bella Gigogin” e la storia delle barricadere di Milano

La “bella Gigogin” esce il 22 marzo 1848, tremante di freddo, dalle barricate fumanti di Porta Tosa, oggi Porta Vittoria, all’ombra del tricolore piantato nel bastione espugnato da Luciano Manara; i 16mila soldati austriaci di Radetzky in fuga verso il Quadrilatero, uccisi in 400 dalla rivolta popolare (che lascia sulle barricate 300 caduti), oltre 600 feriti. E da allora quella fanciulla scappata di collegio conquisterà i garibaldini e comparirà su tutti i campi di battaglia delle guerre di indipendenza. La sua storia cantata cadenza il passo dei mille di Garibaldi come dei soldati di Goito e San Martino, la sua bellezza estenuata è quella dell’Italia malata (Gigogin vezzeggia Teresina, il nome carbonaro dato alla Lombardia) ma anche di una Lili Marlene ante-litteram che scalda il cuore dei soldati, i giovani del lombardo -veneto sanno che nella strofa “dàghela avanti un passo” c’è l’invito a marciare oltre il Ticino, nello "stufa di mangiar polenta" c’è il giallo dell’odiata bandiera austriaca, il “bisogna aver pazienza” rimanda alla speranza del “matrimonio” tra regno sabaudo e l’alleato francese i cui zuavi, nella battaglia di Magenta del 1859, intoneranno quel canto, che risuonò anche sulle bocche dei milanesi, nella notte del 31 dicembre 1858, sotto le finestre del viceré austriaco. Ad ideare un canto patriottico dedicato ad una donna, proprio il 23enne studente Manara che la musica amava (aveva anche fondato una banda) - e che probabilmente aveva visto l’effetto corroborante del “Fratelli d’Italia” portato dal giovane genovese tra i barricadieri milanesi. 

Leggenda vuole che sia stato lui a chiedere di musicare il canto al 16enne Paolo Giorza (compositore che nel 1914 morirà in miseria). Il prossimo comandante dei bersaglieri, dei quali la “Bela Gigogin” è ancora oggi inno ufficiale, si era scoperto guerriero in quei cinque giorni di sanguinose battaglie tra Porta Nuova, il Palazzo del Genio, il Naviglio, Porta Comasina, Porta Ticinese ed infine Porta Tosa, dove, solo due cannoncini e l’ardore degli insorti contro sei cannoni e mille soldati austriaci, lo si era visto avanzare tra i palazzi in fiamme dietro una barricata mobile, quindi avanzare allo scoperto sotto “la grandine delle palle” dei sei cannoni austriaci e incendiare la porta per permettere il passaggio dei rinforzi giunti dalle campagne avvertiti da messaggi inviati con ingegnose mongolfiere (mentre in città ci pensano a far girare le informazioni i coraggiosi Martinitt, gli orfani dell’oratorio San Martino). Ma Manara avrà condiviso in un certo modo lo stesso stupore dell’82enne federmaresciallo Radetzky (“il carattere di questo popolo mi sembra cambiato, il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso”) nel vedere i gesti di coraggio di tante donne che non esitarono a combattere nei modi più svariati, quando, all’alba della domenica 19 marzo (dopo che il 18 era passato tra le prime sparatorie e barricate e si va formando il Comitato di Guerra formato da Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici) Milano divenne una città trincerata. E si saranno stupiti allo stesso modo anche gli eroici amici di Manara - i fratelli Dandolo e Induno, Emilio Morosini, Enrico Cernuschi, Luigi Torelli, Lodovico Trotti, Carlo De Cristoforis, economista combattente - che fino a pochi giorni prima erano solo una comitiva di cospiratori che sognava di scacciare lo straniero con astratte conversazioni libertarie, rifiutando i sigari, per colpire l’erario imperiale e addestrandosi di nascosto con fucili giunti dal Piemonte. Le donne, quindi, non solo in quei cinque giorni confezionano e sventolano i tricolori (nel dipinto-simbolo delle Giornate, quello di Carlo Stragliati, due belle patriote imbracciano la bandiera, con in primo piano una vecchina che ne cuce una) ma anche gettano dalle finestre olio bollente, vetriolo, le pietre divelte dai cortili interni, aprono le loro case per permettere di praticare passaggi segreti, aiutano nella costruzione delle 2000 barricate erette in modo tempestivo per intrappolare i nemici (la più curiosa divenne quella fatta a piazza Cordusio con i libri dell'Ufficio del Bollo), sfamano gli insorti e curano i feriti che nelle ore presero ad aumentare (tra le più attive Laura Solera Mantegazza, futura amica di Garibaldi, che due anni dopo aprì a Milano il primo ricovero per lattanti e nel 1870 la prima scuola professionale femminile). La stessa Carmelita Fè, nipote di Giacomo Beccaria, cugino di Manzoni, che l’irruente Manara aveva sposato di nascosto per l’opposizione della sua famiglia, già dal 17 marzo (quando era giunta la notizia dei moti di Vienna ed il vicegovernatore O'Donnel, lasciato solo in città, aveva pubblicato l’editto della paura nel quale toglieva la censura e annunciava nuove concessioni) si era affiancata a tante milanesi nel preparare le bende necessarie ai feriti, mentre Manara e i suoi amici si affidavano alla mano divina, pregando in chiesa (e Cattaneo scriveva sul Cisalpino: “Ognuno abbia da ora in poi la sua lingua e secondo la lingua la sua bandiera, abbia la sua milizia; ma la rattenga entro il sacro claustro della patria”), Carmelita, nel cui salotto di elegante vedova celebrerà la memoria del marito con i suoi reduci, forse - se non avesse dovuto accudire i figli piccoli - avrebbe anche seguito il suo amato sulle barricate. Ma lo fecero altre per lei: le tante Gigogin salite sulle barricate che Manara poi volle omaggiare. La storia ricorda la morte gloriosa dell’eccezionale tiratore Giuseppe Broggi, ucciso da una palla di cannone in piazza Venezia oppure dell’ufficiale nizzardo Augusto Anfossi, che si trovava di passaggio a Milano, perito nell’assalto al Palazzo del Genio, dopo essere riuscito a vincere gli artiglieri di Porta Nuova con un pugno di uomini, o ancora si rievoca l’ardimento del calzolaio Pasquale Sottocorno che, sebbene claudicante su una gruccia, si trascinò sotto il fuoco nemico fino alla porta del palazzo del Genio bruciandola con fascine incendiarie, intrise di acquaragia. Ma poco o nulla si sa delle gesta di guerra Rosa Vega, uccisa da una sventolata di proiettili o di Paola Pirola che perse due dita per l’esplosione del suo fucile con il quale aveva sparato ininterrottamente per tutti e cinque i giorni. Di Maria Giuditta Galimberti Facchini, si sa solo che era una tessitrice: iniziò la sua lotta lanciando sassi dalla finestra della sua casa in via San Vittore e avrebbe continuato se il 19 marzo non fosse stata ferita ad una gamba da una fucilata. Giuseppina Lazzaroni, 17 anni, “bella giovinetta”, scappò di casa e combattè a Ponte Vetero, a fianco del fratello, con pugnale e pistola alla cintura, vestita da uomo, dimostrando coraggio e una mira infallibile. Precedendo di 4 mesi l’impresa della fiorentina Erminia Manelli, che indossa di nascosto la divisa del fratello bersagliere ferito e muore nella battaglia di Custoza del luglio 1848. E chissà che il loro esempio non abbia fatto vibrare la vecchia milanese Francesca Scanagatta, 72enne vedova, che nel 1797 aveva messo in fuga nel genovese i soldati napoleonici guidando un assalto dei soldati austriaci con la divisa di alfiere (che aveva indossato per sei anni, sostituendosi al fratello renitente, senza che nessuno si accorgesse che dietro le sue fattezze delicate si nascondeva una donna). Veste abiti femminili, ma quelli del cosiddetto “costume all’italiana” o “alla lombarda”, vera e propria uniforme dei combattenti delle Cinque giornate, Luisa Battistotti, moglie di un artigiano di nome Sassi. Per gli uomini era una blusa di velluto nero stretta alla vita da una cintura da cui pendono le armi, grande colletto bianco rovesciato sulle spalle, calzoni corti di velluto nero, stivali al ginocchio; le donne lo indossavano aperto su una sottana bianca a campana, rifinita da fusciacche tricolori. Per entrambi era essenziale il cappello di feltro nero con larga tesa, a cupola alta e con pennacchio, il cappello “alla calabrese”, lanciato dai carbonari dopo i falliti moti in Calabria e rilanciato dal brigantesco copricapo dell'Ernani verdiano. Lo indossava Garibaldi, era il simbolo degli affiliati della Giovine Italia, nel ‘48 era stato calzato dai giovani viennesi in rivolta, divenne il cappello degli alpini nel…. e, nel 1890, era una moda imperante tra gli artisti bohèmienne parigini. Luisa Battistotti il 18 marzo, ai primi segni di insurrezione, si pone alle spalle di un drappello di sei austriaci, all’ultimo della coda strappa a sorpresa la pistola, intima a tutti di arrendersi e li consegna alla vicina caserma dei finanzieri, passati agli insorti. Quindi sale sulla prima barricata, quella di Borgo Santa Croce, e vi resta per le cinque giornate. Nei giorni successivi il suo ritratto è il simbolo della vittoria. Il 6 aprile il governo provvisorio la vuole in prima fila tra le autorità nella solenne celebrazione del "Te Deum" di ringraziamento in Duomo e il 12 aprile le viene assegnata una pensione di guerra annua di 365 lire della quale però non godrà mai perché, al ritorno degli austriaci ad agosto, andò in esilio e morì 28 anni dopo negli Stati Uniti.

E tra Giuseppina Lazzaroni e Luisa Battistotti la scrittrice Carolina Invernizio pone la sua Annetta Durini nelle pagine dedicate alle Cinque giornate nel suo romanzo “La trovatella di Milano” del 1889: una eroina immaginaria che ricalca le gesta delle due figure reali, e che dopo la morte del marito a Porta Tosa decide di vendicarlo: “Un corsaletto le cingeva il busto scultorio; portava il cappello all'italiana; al collo teneva un fazzoletto di seta negligentemente annodato, in mano la carabina, alla cintura un pugnale ed una pistola. A Porta Tosa, ebbe il cappello portato via dalle palle nemiche, per aver difesa una famiglia, che stava per cadere in mano ai Croati; più tardi, mentre confortava un moribondo, fu ferita alla nuca. Tuttavia non si scompose e malgrado il sangue che le pioveva sul collo e sulle mani, continuò il suo pietoso ufficio. Durante le cinque giornate, Annetta non posò mai le armi”. 

Una figura simile anche alla popolana Anna Rogna Contini che, durante le Dieci Giornate di Brescia, che si chiuderanno con mille caduti e i terribili massacri del generale austriaco Haynau, il 23 marzo 1849, viene sbalzata dal letto da una cannonata che fa crollare le pareti della camera, segue il marito sulle barricate, armata di fucile e ritornata nella sua casa, nella quale vi sorprende un soldato croato che sta razziando, lo butta giù dalle scale gridandogli: “Vattene! Le bresciane non uccidono inermi”.

Ma le Cinque Giornate di Milano ebbero anche una sua coscienza critica tutta al femminile grazie alla penna della “pasionaria” principessa Cristina di Belgiojoso che, a Napoli allo scoppio della rivolta, aveva guidato un battaglione di giovani volontari a bordo di un piroscafo e che, quando arrivò il 6 aprile a Milano, stringendo in pugno una bandiera tricolore, trovò il Governo Provvisorio già diviso dai conflitti interni con il federalista Carlo Cattaneo contrario all’intervento di Carlo Alberto, il podestà Gabrio Casati, noto fusionista e difensore dei privilegi aristocratici e Mazzini sempre più innervosito intermediario, promosse un plebiscito in cui vinse il sì per il Piemonte, e dopo il ritorno degli austriaci pubblicò a Parigi un libello per difendere i lombardi e denunciare la vergognosa condotta del re sabaudo che, dopo aver dichiarato guerra all’Austria il 26 marzo, aveva avviato fin da maggio trattative segrete con Radetzky e il 5 agosto, in una Milano armata da 50mila uomini “e a fianco di questi una popolazione, uomini, donne e persino i bambini pronti a prestare la loro parte”, promise che si sarebbe battuto “fino alla sua ultima goccia di sangue” per poi fuggire la notte stessa con tutti i cannoni e “i quattro milioni di libbre provenienti dalla tesoreria offerte dalla chiesa”. La domenica 6 agosto, a mezzogiorno, si chiudono i 135 giorni di lotte e speranze dei milanesi: l’ingresso di 25 mila soldati, il via ai saccheggi, 100mila milanesi rifugiati in Piemonte nel Canton Ticino, le mille condanne a morte della repressione nel lombardo-veneto. Il 31 agosto, a Vienna, Johann Strauss padre dirige la marcia che festeggia la vittoria di Radetzky, oggi un classico dei concerti di capodanno che ora alcuni intellettuali italiani non vorrebbero suonato sul suolo nazionale, nel clima delle celebrazioni per il 150.mo dell’Unità. Anche se la storia ha comunque decretato la vittoria della polka risorgimentale della “Bella Gigogin”.

(Marina Greco)

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