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Zingaretti e il problema
della seconda Camera

Zingaretti e il problema <br> della seconda Camera

di Paolo Pombeni

(9 settembre 2020)  Finalmente Nicola Zingaretti si è accorto, con molta cautela, che il vero nodo che si potrà porre dopo una eventuale conferma della riduzione dei parlamentari è la questione del Senato. La decisione presa a cuor leggero di farne del tutto la fotocopia della Camera dei deputati per la verità non passa dalla riforma grillina, ma da quella, costituzionalmente indecente, dell’on. Fornaro (di LeU) di equiparare i criteri dell’elettorato attivo e passivo fra le due Camere ed abolire il vincolo delle circoscrizioni regionali per il Senato. Sta di fatto che così il Senato diventerebbe ancor più un doppione senza significato, e, come ha notato Enzo Cheli (uno dei migliori costituzionalisti italiani ed ex giudice della Consulta), si scivolerebbe inesorabilmente verso il monocameralismo.

Ma sarebbe questa una buona soluzione, anche lasciando perdere che così si tradirebbe quanto deciso dai Costituenti che respinsero espressamente una scelta per il monocameralismo che allora il PCI sosteneva in prima battuta? Crediamo che la questione meriti qualche considerazione, tanto più che recentemente il segretario del PD Zingaretti, accogliendo un buon suggerimento di Violante, si è pronunciato per avviare un processo di ripensamento su come rendere il Senato una Camera che abbia un contenuto e un significato.
Per capire la natura del problema, bisogna brevemente richiamare qualche elemento storico. Il sistema delle due Camere ha origine nella volontà di appaiare due diversi tipi rappresentanza: una di tipo territoriale (poi declinata anche sul piano delle ideologie politiche) ed una di tipo personale-qualitativo: dunque una camera dei “comuni” e una camera dei “signori” (lord). Con l’andare del tempo si era teorizzato che la camera “bassa”, elettiva, rappresentasse il sentimento popolare al momento del voto, mentre quella “alta” avrebbe dato voce ad una rappresentanza che non si legava al consenso momentaneo, ma aveva orizzonti di consapevolezza dei doveri dei “migliori” verso la propria nazione.
Con il passare del tempo ovviamente questo schema si è usurato, anche prescindendo dal fatto che alla sua purezza ideale non ha mai corrisposto. Il “sentimento popolare” si è mostrato via via sempre più mobile e manipolabile, mentre trovare dei “migliori” che si elevassero sulle miserie del presente è risultato sempre più complicato, per non dire quasi impossibile.
Per la verità oggi in via di pura ipotesi potremmo presentarla così: forse che la Camera legata alla registrazione del sentimento popolare del momento non ha mostrato i suoi limiti col fatto che in un certo giorno un partito (M5S) ha ottenuto un successo straordinario che però si è dissolto rapidamente mentre gli resta il numero di deputati ottenuti grazie a quel momento con cui condiziona tutto? Forse che non ci servirebbe un Senato in cui si potessero far sedere per un lungo tempo personaggi come, per dire, Draghi o Cottarelli senza che questi debbano la loro elezione ad un partito?  Sappiamo bene che ci sono controindicazioni, come ha mostrato la vicenda dei senatori a vita, ruolo (limitatissimo) a cui hanno avuto accesso personaggi che hanno illustrato il paese, altri con scarso peso politico e politici a fine carriera che hanno avuto il ruolo come una super pensione dorata.
C’è però la soluzione che aveva tentato di abbozzare (un po’ malamente) la riforma Renzi: un Senato che rappresentasse le regioni, istituzioni che, come si è visto con la vicenda della pandemia, hanno un ruolo ed un peso che va inquadrato in un sistema nazionale, non essendo più sufficiente quella specie di inquadramento surrettizio che poteva essere garantito dal controllo nazionale dei partiti, controllo che non esiste più. Tuttavia puntare a dare un canale in cui instradare la produzione di classi dirigenti che arrivano dal vero lavoro amministrativo sui territori (non solo le regioni, ma anche i comuni) arricchirebbe la dialettica politica e la sottrarrebbe, almeno entro certi limiti, dalla dittatura dei caminetti nazionali che controllano il sistema comunicativo dei talk show e palcoscenici assimilati.
Nulla vieterebbe che in una Camera rappresentativa delle regioni e dei comuni (con sistemi elettorali che li aggreghino, ovviamente) si potesse inserire la presenza di un certo numero di senatori di lungo corso (tipo: un quindicennio) da scegliersi fra personalità di alto rilievo, da individuare con procedure di garanzia (è un risultato che si è ottenuto coi giudici della Corte Costituzionale, perché non lo si può replicare in qualche modo?).
Per rendere la seconda Camera espressione di una dialettica concentrata nell’esercizio del potere legislativo (come iniziativa e come controllo su quello del governo), si dovrebbe però senz’altro conferire il potere di dare e togliere la fiducia al governo solo alla prima Camera elettiva: continuare a consentire una competizione “politica” sulla vita del governo fra le due Camere porterebbe solo ad un pasticcio come quello attuale. Si può davvero pensare che l’uscita inaspettata di Zingaretti alla direzione PD avrà un seguito? C’è da augurarselo, anche se temiamo non accadrà. In fondo una riforma del Senato tipo quella abbozzata qui significherebbe tagliare altri 200 posti (se passerà la riforma, 315 nel caso contrario) alla classe politica dei partiti nazionali, aprendosi a nuove filiere di reclutamento. Non vediamo in paramento molto sostegno a questa ipotesi, neppure fra i Cinque Stelle. 

(da mentepolitica.it

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