Vittorio Rizzi, vice capo della Polizia e Anna Maria Giannini, docente di Psicologia alla Sapienza, sono i curatori di “Investigare 4.0” (Piccin editore), un testo pensato per gli studenti di criminalistica ma destinato a suscitare l’interesse di un pubblico più vasto. Con i suoi 27 brevi saggi firmati da altrettanti specialisti, appartenenti in maggioranza alla Polizia di Stato, il manuale è innanzitutto la fotografia di un lavoro di squadra, un metodo e una consuetudine di cui il prefetto Rizzi ha sperimentato l’importanza nel corso della sua carriera di investigatore. Il libro ha un impianto robustamente garantista, con una costante attenzione ai diritti di tutti in tutte le loro diverse declinazioni. E’ un filo rosso che attraversa i principali capitoli, dalle interviste di polizia alle audizioni protette, dall’utilizzo dei big data alle repressione dei crimini d’odio, dalla violenza di genere alla tutela delle vittime dei reati. Un altro aspetto rilevante di questo “viaggio nel mondo delle indagini” è proprio l’attenzione prestata al punto di vista delle vittime e dei loro familiari. Una sensibilità particolarmente significativa, dopo anni in cui nella discussione pubblica su giustizia e sicurezza il punto di vista delle vittime è stato sottorappresentato o ignorato. Agli studenti, “Investigare 4.0” racconta, tra le altre cose, la straordinaria storia del progetto Chirone, pensato per formare gli agenti a un approccio non burocratico al dolore dei familiari delle vittime, anche con quei piccoli gesti che hanno grande importanza per chi sta provando l’esperienza più drammatica della propria vita.
Un ulteriore pregio dell’antologia è la panoramica che definirei avvincente (se non si trattasse un testo universitario) dei risultati ottenuti con l’innovazione degli strumenti e delle tecniche di indagine. Un esempio è la metamorfosi della polizia postale, un corpo ad altissima specializzazione e con un ruolo cruciale nella tutela della sicurezza delle istituzioni, della democrazia economica e dei diritti individuali.
Meritano di essere segnalate la toccante intervista di Elisabetta Mancini alla senatrice Liliana Segre sul tema dell’odio e le pagine che Anna Maria Giannini dedica alla violenza collettiva, con la descrizione del cosiddetto Stanford Prison Experiment, pagine quasi profetiche se si pensa a ciò che è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. O l’analisi, nel medesimo capitolo, dei molteplici meccanismi di disimpegno morale, che consentono all’uomo di fare il male senza avvertirne la colpa. Un tema anche questo di grande e sbalorditiva attualità.
Sono importanti, nel libro, gli approfondimenti sulla violenza di genere, sui crimini d’odio, sul ruolo dell’intelligence e quelli che riguardano la comunicazione . Il cittadino, si legge, “si aspetta serietà, trasparenza, verità ed affidabilità: vuole contenuti e concretezza perché la comunicazione istituzionale non può essere mai una fake news”. E’ un tema che ripropongo nell’ultimo capitolo dell’antologia dedicato al giornalismo investigativo. L’investigazione di cui tratta il volume non è quella giornalistica, poiché le indagini sono un compito che la società ha appaltato non ai cronisti ma allo Stato. Tuttavia ha un interesse pubblico anche il giornalismo, “in particolare quel tipo di giornalismo che cerca di scoprire informazioni di interesse pubblico che qualcuno sta cercando di nascondere”, secondo la definizione che il Cambridge Dictionary dà del giornalismo investigativo. Le informazioni di cui si occupa il giornalismo investigativo sono dunque quelle, nascoste, che esso giudica rilevanti. Non sono selezionate in base a un testo normativo, non è prevista alcune obbligatorietà dell’azione giornalistica, c’è, al contrario, un’ampia discrezionalità. di cui certo non si può avvalere chi investiga per conto dello Stato e deve rispettare regole stringenti e garantiste.
Alla base della professione giornalistica c’è invece la libertà di scegliere : scegliere quali fatti meritano di diventare notizie. Come sappiamo, nell’esercizio della sua funzione, la pratica giornalistica è in qualche modo “ancella” degli apparati istituzionali, che sono una fonte importante – anche se non l’unica - delle notizie. Informazione, magistratura, forze di polizia occupano terreni diversi ma confinanti, e gli sconfinamenti non sono infrequenti. Perché prevalga il rapporto di buon vicinato, è decisivo tenere sempre presente chi quello dei cittadini a essere informati e quello dello Stato a non mettere in pericolo la propria sicurezza sono interessi entrambi costituzionalmente protetti.
Il tipo di giornalismo che ha trovato rappresentanza nel libro è quello che in Italia ha pagato un prezzo altissimo per le sue investigazioni sulle mafie. Nel libro ci sono i nomi dei cronisti assassinati, da Mauro de Mauro a Giancarlo Siani; sono una ventina, molti, troppi. E’ il tributo della cultura civile del Sud alla crescita della democrazia italiana, ed è l’altro volto di una professione che, da noi, è stata storicamente attigua agli interessi del potere politico, economico e finanziario. Il che spiega, tra l’altro, perché nei quattro Meridiani Mondadori dedicati al giornalismo italiano, il giornalismo investigativo sia pressoché assente.
Ci sono peraltro posture professionali che si camuffano da giornalismo d’inchiesta e non lo sono: quelle che si nutrono esclusivamente di documenti e “soffiate”, senza verificarne la fondatezza e senza la garanzia di un contraddittorio. O quelle che si riducono a cassa di risonanza degli interessi di una parte, come talvolta accade con la pubblicazione di documenti strumentalmente diffusi dai protagonisti delle vicende giudiziarie. Anche un uso spregiudicato e improprio delle intercettazioni telefoniche è solo in apparenza un servizio reso alla verità: perché il contesto, le omissioni, i silenzi sono spesso più importanti di ciò che – dopo accurata selezione - viene fatto ascoltare.
Oggi il giornalismo investigativo ha davanti a sé un nuovo campo di indagine, forse il più insidioso dato che riguarda la corruzione e gli inganni dell’informazione. Il giornalismo deve, paradossalmente, cominciare ad indagare su se stesso, sulla propria credibilità, sui propri limiti e su quella deriva che oggi chiamiamo fake news. Deve ridurre la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione. Deve ridurre la deriva rappresentata dal politicismo e dal sensazionalismo.
Indagare su stessi significa, per chi fa informazione, attenersi all’obbligo di verifica delle fonti e dei contenuti, prassi nota come fact checking. Dopo il controllo dei fatti, occorre poi onestà nel riferirli. Ricordo che l’onestà è perfettamente compatibile con le passioni e con le idee a cui ciascuno di noi vivendo si affeziona. A patto che non si spaccino per fatti le passioni e per verità le idee.
C’è una cosa che il buon giornalismo condivide con i buoni investigatori , ed è la consapevolezza che non sempre basta scoprire la verità perché giustizia sia fatta e le cose cambino. Nella percezione che molti cittadini hanno della realtà, capita spesso che verità e falsità si elidano. Nel mondo sempre più militarizzato dei social, trionfano opinioni granitiche, impermeabili a qualsiasi informazione che possa smentirle o metterle in discussione.
Sentiamo solo ciò che vogliamo sentire, vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Al buon investigatore, sarà dunque capitato di sentirsi solo, come talvolta capita anche a chi fa coscienziosamente il giornalista. La lettura di “Investigare 4.0” è un buon balsamo anche contro la solitudine. (22 luglio 2021)
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