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LA RIFORMA SIMBOLICA
DI CUI L’ITALIA HA BISOGNO

LA RIFORMA SIMBOLICA<br>DI CUI L’ITALIA HA BISOGNO

di Paolo Pombeni

Il dibattito sull’art.18 non è così surreale come sembra. O meglio: è surreale quel che si dice nel merito, ma il suo significato nascosto mette in luce gran parte del problema della attuale fase della politica italiana. La parte surreale è discutere su un punto che tutti, favorevoli come contrari all’abolizione, riconoscono non avere grandi effetti concreti immediati. Da un lato è vero che abolirlo (o meglio riformarlo a fondo) non creerà molti posti da lavoro, dall’altro è altrettanto vero che è poco serio difenderlo solo per chi ce l’ha, come se gli altri, che sono sempre più la maggioranza, fossero figli di un dio minore (naturalmente tutti sanno che la propaganda dell’ “estendiamolo a tutti” è appunto propaganda e basta). Il contenuto concreto è che si tratta di una battaglia a forte valenza simbolica, il che non significa con contenuto fumoso, ma con la capacità di segnare visibilmente un tornante.
Il problema dell’Italia in questo momento è la scarsa considerazione che il suo sistema politico, economico e sociale gode a livello internazionale. Un paese in cui da quarant’anni o giù di lì si discute di riforme, di cambio di passo e via dicendo e in cui l’unico cambio è stato quello di liquidare un sistema di partiti, certo ormai logorato ed inefficiente, per sostituirlo con un altro che non si è rivelato migliore, è difficile che venga stimato capace di rispondere alla crisi che attanaglia in varia misura tutto il sistema occidentale. Il presidente Napolitano sembra essere rimasto tra i pochi a farsi carico di una risposta a questa emergenza, ma sembra anche che predichi al deserto.
Ora la situazione potrebbe apparire sull’orlo di sbloccarsi perché è accaduto un fatto non frequente nella nostra storia: una nuova generazione è riuscita a scalzare dai vertici di quello che era il maggior partito strutturato e che si presentava come l’erede del meglio della vecchia repubblica una classe dirigente che non aveva saputo condurre una battaglia per il rinnovamento se non nel nome di un contorto moralismo anti-berlusconiano. Era l’erede naturale di quella trasformazione del PCI che Ermanno Gorrieri, uno dei dirigenti DC che avevano condiviso il passaggio verso la nuova fase, aveva una volta icasticamente descritto come “partito radicale di massa”.
Il leader di quello che a tutti gli effetti vuole essere “il nuovo PD”, cioè Matteo Renzi, ha buttato tutta la sua energia e la sua capacità comunicativa nel mandare il messaggio che adesso l’Italia sta cambiando e che dunque si deve darle fiducia. Si può discutere se l’annuncio si stia realizzando e soprattutto se dopo gli inizi si riuscirà ad andare avanti, ma resta il fatto che uno scossone è stato dato.
A questo punto entra in gioco, inevitabilmente, la reazione di quelli che si vedono o scavalcati o dimissionati da questa svolta. Ciò mette in questione la natura stessa della “forma partito”, che in realtà sopravviveva più o meno solo nel PD (forse, ma con non poche anomalie, anche nella Lega). Infatti Renzi ha bisogno di intestarsi una riforma che sia chiaramente “eversiva” del vecchio sistema a base neo-corporativa che ha caratterizzato l’ultima fase della cosiddetta prima repubblica e che si è trascinato, trasformandosi in una palude di piccoli potentati che hanno fatto il loro nido dentro le pieghe dei conflitti pro o contro Berlusconi, nella cosiddetta seconda repubblica. Poteva essere la riforma costituzionale, ma questa non è veramente in grado di rovesciare da sola l’immagine negativa dell’immobilismo italiano: ha tempi lunghi, non si sa a quali esiti approderà veramente, e soprattutto tocca solo gli equilibri della classe politica.
La riforma del lavoro ha un impatto simbolico indiscutibile: mostra il ridimensionamento delle vecchie culture di una sinistra che è rimasta ancorata a ritualità ideologiche, contraddice al principio dei poteri di veto del vecchio consociativismo, dà prova del cambiamento avvenuto all’interno di quella che, piaccia o meno, è rimasta l’ultima forza potenzialmente interclassista del nostro sconquassato sistema sociale. E’ singolare che i “vecchi elefanti” (per prendere a prestito una formula della battaglia interna al partito socialista francese) e i loro cuccioli non capiscano che stanno giocando una battaglia allo sfascio, perché liquidare Renzi significa aprire al caos, in quanto non c’è all’orizzonte nessun leader alternativo e nelle crisi c’è inevitabilmente bisogno di leader, altrimenti tutto si sbanda.
A volte Renzi ha citato come ispirazione il Fanfani dei tempi del centrosinistra. Speriamo che i nuovi dorotei del suo partito non gli facciano fare la stessa fine, in più senza avere a disposizione alcun Aldo Moro. In più a costoro vorremmo ricordare che i dorotei potevano giocare con la rete di sicurezza delle gerarchie cattoliche che impedivano in nome dell’unità politica confessionale una dissoluzione del consenso di massa di quel partito, mentre i nuovi dorotei del PD qualcosa di simile non ce l’hanno e dunque potranno forse far crollare il potere di Renzi, ma al prezzo di rimanere anche loro seppelliti sotto quelle macerie.
(da mentepolitica.it - 26 set)

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