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direttore Paolo Pagliaro

MAFIA, 30 ANNI FA
L’OMICIDIO LIVATINO

“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Queste parole, estratte dagli appunti di Rosario Livatino, sono un po’ il manifesto del modo di intendere la vita, il diritto e la fede del magistrato siciliano, ucciso in un agguato mafioso (in particolare per opera della Stidda) la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre, senza scorta e con la sua auto, si reca in Tribunale. Inutile la sua fuga a piedi, già ferito, verso i campi limitrofi: dopo poche decine di metri viene raggiunto e freddato. Un omicidio che riporta alla brutale realtà un Paese che fino a poco più di due mesi prima è al centro dell’attenzione del mondo per i mondiali di calcio e poco meno di due anni dopo torna ad esserlo per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti dell’omicidio vengono tutti condannati, nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i “collaboranti”. Rosario nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952: a soli 22 anni consegue la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo col massimo dei voti e la lode. “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige” scrive il 18 luglio 1978. Dal ’79 alla morte, al Tribunale di Agrigento – prima come sostituto procuratore e poi come giudice della Sezione misure di prevenzione - si occupa delle più delicate indagini antimafia ma anche di quella che poi negli anni novanta sarebbe stata conosciuta come la “Tangentopoli siciliana”. È considerato “Servo di Dio” dalla Chiesa: in occasione della sua visita pastorale in Sicilia nel 1993, dopo aver incontrato ad Agrigento i genitori di Livatino, Papa Giovanni Paolo II definisce così le vittime mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Celebre la definizione spregiativa di “giudice ragazzino” attribuita all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che però ha poi smentito fosse riferita al magistrato.

MATTARELLA. Livatino “ha condotto importanti indagini contabili e bancarie sulle organizzazioni criminali operanti sul territorio e sui loro interessi economici – ricorda a trenta anni dalla morte il capo dello Stato Sergio Mattarella - Egli ha, tra i primi, individuato lo stretto legame tra mafia e affari, concentrando l’attenzione sui collegamenti della malavita organizzata con gruppi imprenditoriali. Consapevole del delicato ruolo del giudice in una società in evoluzione e della necessità che la magistratura sia e si mostri indipendente, egli ha svolto la sua attività con sobrietà, rigore morale, fermezza e instancabile impegno, convinto di rappresentare lo Stato nella speciale funzione di applicazione della legge. Ricordare la vile uccisione di Rosario Livatino richiama la necessità di resistere alle intimidazioni della mafia opponendosi a logiche compromissorie e all’indifferenza, che minano le fondamenta dello stato di diritto” sottolinea Mattarella.

 

CEI. Oltre che uomo di diritto, Livatino era però anche uomo di fede e non manca oggi il ricordo della Conferenza episcopale italiana: “Un tempo si dichiarava beato un popolo che non avesse avuto bisogno di eroi. E così pure di santi, di figure esemplari, di testimoni. Permettetemi di obiettare che abbiamo bisogno di tanti piccoli e grandi eroi del quotidiano, che si sentano chiamati mentre attendono al loro lavoro, che sappiano comportarsi in fedeltà alla missione ricevuta, che donino umilmente la vita giorno per giorno là dove si trovano a vivere e a operare, che abbiano il coraggio della fedeltà nonostante i limiti e le umane debolezze, che onorino il proprio mandato – qualunque esso sia – con estrema dignità. Davvero beato un popolo, un paese che ha uomini e donne così. Beate le istituzioni che sono presidiate da figure simili” sono state le parole del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nella sua omelia alla messa celebrata questa mattina a Roma, nella chiesa del Sacro Cuore del Suffragio. “Il compito del magistrato è quello di decidere – sono invece le parole con cui Livatino illustrava il suo modo di essere magistrato - Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”. (Roc – 21 set)

 

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