Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

La premier che non ama
giornalisti e controllori

di Salvatore Tropea

C’è ancora qualcuno che, nei dibattiti televisivi o sui giornali, si ostina a chiedersi se Giorgia Meloni appartenga e a quale titolo alla galassia neofascista italiana, con conseguente sollievo dell’interessata e del ristretto gruppo dei suoi pretoriani che sfruttano questo assist per spolverare la collaudata strategia del vittimismo e soprattutto per evitare di dare conto del misero bilancio del governo.
Questo risultato, che oggi sembra specchiarsi nell’incolmabile ritardo accumulato nell’attuazione del Pnrr ripetutamente segnalato dalla Corte dei conti della quale si vogliono ridimensionare i poteri di controllo, fotografa lo stato dell’opera che il governo tenta di nascondere. E spiega l’insofferenza a ogni forma di vigilanza i cui effetti si possono facilmente immaginare quando si pensi a interventi come quelli previsti per le zone alluvionate della Romagna o ai lavori per il ponte il Ponte sullo Stretto di Messina. Come dire, porte aperte a ulteriori sperperi di danaro pubblico e nell’ipotesi meno benevola al rischio di infiltrazioni criminali. Non sarebbe la prima volta, è vero, ma proprio per questo non si deve abbassare la guardia permettendo che alle contaminazioni del passato se ne aggiungano di nuove che l’Europa non ci perdonerebbe.
Questo scenario non sembra però rientrare nelle preoccupazioni della premier la cui intolleranza nei confronti dei controlli sta raggiungendo forme patologiche come dimostra la sua sempre più spiccata idiosincrasia nei confronti dei giornali e dei giornalisti. Da quando è a Palazzo Chigi la signora Meloni ha progressivamente limitato fino a eliminarle le conferenze stampa che normalmente dovrebbero seguire a decisioni importanti, approvazioni di leggi e decreti, missioni ufficiali all’estero. Naturalmente senza che gli alleati abbiano dato segni di disappunto verso questi metodi. Del resto sarebbe del tutto singolare aspettarsi una reazione da Berlusconi il quale da presidente del consiglio mandava le cassette registrate dei suoi commenti alle televisioni che ne facevano largo uso. Meno che mai da Matteo Salvini che per comunicazione intende le sue esternazioni di piazza e brinda alle fughe dalla Rai di professionisti del giornalismo e dell’intrattenimento, tanto più se si tratta di intrattenimento politico e culturale.
Giorgia Meloni ha davanti a sé una strada senza ostacoli sulla quale può marciare verso il consolidamento di un rapporto con i giornali che, ben lontano dai modelli seguiti nei paesi democratici, va rassomigliando sempre più da vicino all’agenzia Stefani: non a quella fondata a metà dell’Ottocento su ispirazione di Cavour ma alla sua versione deteriore come organo di propaganda di Mussolini e del fascismo. I giornali come strumento democratico di comunicazione non rientrano nell’idea che la Meloni ha del rapporto con il Paese e del dovere di informarlo sull’operato del governo: non si capisce bene se per timore di dover fare i conti con i suoi limiti, se per un naturale rifiuto del confronto o per entrambe le ragioni. Ciò che appare sempre più evidente è la sua nostalgia per l’ultima Stefani. Ed è quanto basta per chiudere il discorso sulle sue simpatie e sui suoi comportamenti. 

 

 

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