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direttore Paolo Pagliaro

Due parole su Baricco e la sua opera postuma in vita

di Valerio de Filippis

Anni fa, sul Corriere della Sera, la poetessa Maria Luisa Spaziani, donna intimamente montaliana, raccontò che smise di fumare. E che da quando smise, smisero pure le metafore, non le venivano più, non metaforizzava più; la mancata aspirazione di fumo era diventata mancata ispirazione di analogia. Poi, rassicurò – più sé stessa che i lettori – le metafore tornarono anche a vizio interrotto.
Alessandro Baricco ha accompagnato l’uscita del suo ultimo libro, Abel, con uno di quegli interventi tipici suoi, che abbiamo conosciuto raccolti nei vari Barnum; articoli d’occasione a piacere, libera – beato lui – su una visita alla Cappella Sistina nell’isolamento di una musica che non ricordo adesso, sparata nelle orecchie dalle cuffie, sul gesto di un tennista, attorno al tic di uno scrittore, circa le vacche del Wisconsin e l’anima di Hegel, sugli speroni di Cormac McCarthy; una parata del baricchismo a volte pirotecnica – per chi come me lo ama – a volte stucchevole, ma sempre così baricchiana, come un profumo sistematico: se ti piace ti piace sempre sul collo della donna che ami.
L’apparente confusione dei soggetti e dei temi che attirano la sua attenzione in realtà risponde non so quanto programmaticamente, alla poetica non poetica del postmodernismo: un collage di elementi spuri e contradditori, come mettere sull’indice di quello strano angelo che indica il giudizio universale, il touch screen di un iPhone. Non sono certo il primo ad accorgermene: l’Università di Padova, in tandem con quella di Varsavia – gemellaggio di cui deliberatamente ignoro la genesi, ha pubblicato una tesi – per altro leggibile in rete [https://www.research.unipd.it/retrieve/e14fb26f-e4f8-3de1-e053-1705fe0ac030/ewa_nicewicz_tesi_padova.pdf] – di cui annoto il solo titolo: “Il caso Baricco: nella trappola del postmoderno”. Il che è vero, come ogni virtuosismo, se non sei Gadda, Giacometti o Paco de Lucia, la stecca e l’avvitamento estetizzante nello stesso virtuosismo, sono dietro l’angolo. O sei nativo del postmoderno, come David Foster Wallace, e allora, ok, ma se fai il verso a DFW, povera aragosta… Comunque, chissenefrega, penso che persino lui, il fondatore della scuola Holden, sappia benissimo che non tutte le ciambelle Barilla gli sono venute col buco. Pazienza.
Per certi versi lo sguardo panottico di Baricco sul mondo è simile a quello di Italo Calvino, quando riusciva a fare racconto di uno stormo di uccelli sul cielo di Roma, animandolo come un corpo solo cangiante e spettacolare, o come la visione di un miope messa a fuoco col supplemento magico delle diottrie del suo talento scrittorio. Ecco, siamo lì - tac o zac: direbbe Baricco. Pazzesco. Ogni tanto dirò pazzesco, come la trama del mio omaggio verbale ad uno degli aggettivi che non riesco a non riprodurre mentalmente se non nella pronuncia della z sonorizzata del buon torinese di cui parlo. Pazzesco.
L’articolo di Baricco racconta la gestazione spontanea di Abel. Nessuno che ami Baricco come lo amo io può non provare oggi una apprensione angosciante per il suo stato di salute; questo racconto del racconto ne tiene ovviamente conto. Posso dire che come alla Spaziani dopo aver smesso di fumare, sparirono le metafore, a Baricco, dopo aver smarrito il silenzio, dopo essere uscito dalla cameretta iperbarica del chiuso della sua bolla di concentrazione per entrare nel clangore e nel fracasso della fama mondiale che ha – ragazzi, Baricco che vi piaccia o no è una delle nostre rockstar letterarie e dobbiamo tenercelo stretto e all’occasione, come sto facendo io ora, lucidarlo – ha perso non tanto le parole, che quelle intese come arsenale professionale non gli mancheranno mai, ma la voglia di raccontare sì, la pulsione inconscia alla scrittura, quella sì che si può perdere. E senza quella, la vita di uno scrittore è una vita depressa, infelice, senza piacere.
Non dico che senza quella un individuo che abbia fatto della scrittura il suo mestiere non viva, ma c’è una differenza sostanziale tra restare in vita e vivere. Motivo questo che ha spinto Baricco fino ad Abel: un libro ulteriore – un’opera postuma in vita se non risultasse un tantino esagerato - non l’ultimo ma forse un libro non necessario per ingemmare il corpus della sua poetica di un diamante definitivo. Come hanno fatto molti scrittori – ne prendo uno per tutti, Herman Hesse, con Il gioco delle perle di vetro (appunto: perle). No, a parer mio Alessandro poteva benissimo risparmiarselo questo romanzo e sarebbe rimasto Magno lo stesso. Non è questo il punto. “…per un bel po’ non ho più scritto una riga… Poi, però, a poco a poco, incominciò a crescermi dentro quella che era una mancanza, un battito mancante, uno spazio bianco. Il fatto è che per me scrivere è sempre stato, oltre a un modo per campare, una sorta di esercizio spirituale, e spesso un eremo dove meditare, e sempre il mio segreto Carnevale. E questi tre pezzi di me non sembravano aver trovato una dimora diversa, analogamente perfetta. Così nel libro mastro del mio sentire i conti non tornavano più, e denunciavano una vita in perdita” (Repubblica, 07/11/23). Pazzesco, no? Cioè uno ha tutto, forse gli manca qualche incoronazione di quelle che per celebrare la vittoria devi attaccarti alla bottiglia di un liquore giallo come un olio fosforizzato.
Non ce lo vedo Baricco allo Strega. Perché lui è come Luciano Ligabue; uno che a Sanremo non c’è mai andato, uno che può fare a meno di concorrere che tanto ha già vinto la guerra del mercato. E così se non c’è Sanremo, o non c’è lo Strega; chissene. Se invece ti manca in una botta sola, l’Eremo, lo Spirito e il Carnevale, beh… Vuoi vedere che è il caso che alzo il culo e me lo vado a cercare l’eremo, lo spirito e il carnevale, perché senza posso pure sopravvivere, ma di certo non vivere. “…ho iniziato a far leggere un “canto” al figlio, poi uno alla donna che amo, poi l’altro figlio, poi uno di qua e uno di là, erano come regali, o come messaggi da qualche lontananza, insomma mi veniva molto naturale, ogni tanto era così dolce spedire quelle righe. Aveva effettivamente il sapore del compimento. Di qualcosa riportato a casa”.
Ecco dove voglio arrivare e quindi, annuncio, sto per finire. Il sapore del compimento, di qualcosa riportato a casa. Smetto di fumare, perdo le metafore, poi in qualche modo le riporto a casa. Abel, bello o brutto che sia, ha la specialità di essere un libro miliare, familiare, superfluo ma necessario, come è necessario ogni atto che riconsegni la vita al suo titolare. Ed io leggo Abel, ma sento Amen.

(© 9Colonne - citare la fonte)