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IL PD DELL’EMILIA
UN MODELLO IN CRISI

IL PD DELL’EMILIA <br>UN MODELLO IN CRISI

di Paolo Pombeni


Sulla stampa nazionale ha avuto rilievo, ma fino ad un certo punto: parliamo della situazione che sta vivendo il PD in Emilia Romagna dopo le dimissioni da presidente della Regione di Vasco Errani a seguito della sua condanna nel processo d’appello per una contorta vicenda di coinvolgimento nella “giustificazione” di un atto di finanziamento dell’ente da lui presieduto ad una grossa cooperativa presieduta dal fratello (ma senza alcuna ingerenza personale nel favorire questa erogazione). Errani, con un gesto molto apprezzabile e raro, come gli hanno riconosciuto tutti, ha ritenuto suo dovere dimettersi dalla carica ricoperta. Il fatto è che questo atto altamente responsabile ha portato alla luce la fragilità di un partito che non solo da oltre mezzo secolo governa il sistema regionale, ma passava per esserne il nucleo d’acciaio a livello nazionale. Nessun parallelo con il precedente caso del sindaco di Bologna Flavio Delbono che lasciò malamente (resistette fino all’ultimo costringendo per i suoi ritardi la città a subire un lungo commissariamento) e per un caso non certo limpido di uso scorretto di fondi pubblici per fare le vacanze con l’amante-segreteria. Ma il punto non è questo: Delbono lasciò il suo partito in panne perché decadde poco dopo l’avvio del mandato e il problema di una sua successione ovviamente nessuno se lo poteva essere posto in precedenza.
Errani invece sarebbe comunque giunto alla conclusione del suo terzo mandato nella primavera prossima e tutti sapevano che non era ricandidabile a quella tornata elettorale. Della sua successione si discuteva, neppure troppo riservatamente, da tempo. Ebbene, si è scoperto che della successione si discuteva, ma il partito non era in grado di prepararla e di pilotarla.
Ecco perché quel che sta avvenendo in Emilia Romagna è sintomatico della crisi profonda della forma-partito contemporanea. Il PD di questa regione è, o si pensava fosse ancora, una relativamente solida struttura organizzativa, sperimentata nella gestione di un certo consociativismo. Qui la fusione fredda fra ex PCI e “altri” (Margherita, Asinello, qualche socialista, ecc. ecc.) era riuscita abbastanza bene, anche a prezzo, col senno di poi, di qualche scivolone (un capogruppo in Regione ex Margherita coinvolto in una brutta storia di uso improprio dei fondi spesa). Persino lo scontro fra chi si era schierato da subito col rinnovamento renziano e lo zoccolo duro ex PCI era stato piuttosto… ovattato (a parte la ricerca di protagonismo di qualche elemento minore), mediato poi da un bel po’ di conversioni di vertici bersaniani al nuovo verbo politico.
Bene, in un contesto del genere, nel momento in cui il partito viene messo di fronte ad una accelerazione imprevista, lo si scopre impreparato, privo di veri luoghi di mediazione legittimante (tali non sono ovviamente di questi tempi i vari “salotti” degli antichi centri di potere) e molto perplesso di fronte alla necessità di andare alle tanto mitizzate in precedenza “primarie”. Come dargli torto? Questa volta le primarie sono difficili da realizzare in stile PCI come si è troppe volte fatto sin qui, cioè con designazioni dall’alto del candidato che deve vincere per cui vota disciplinatamente lo zoccolo duro dei militanti (una platea ormai ageé e per lo più interna alle appartenenze tribali di partito), sicché gli outsider tali sono e tali restano. Adesso il PD è davvero spaccato in gruppi e sottogruppi, sconta divisioni di campanile non piccole (che Errani aveva gestito con una piuttosto discutibile teoria del policentrismo, cioè della spartizione fra tutti), è alle prese con una opinione diffusa sensibile alle sirene dei media e ben disposta a seguire la moda del “gliela facciamo vedere noi”.
A testimoniare lo sconcerto dei gruppi dirigenti c’è la tentazione di imporre una scelta unitaria dall’alto, sull’esempio di quanto si è fatto in Piemonte con Chiamparino, ma il problema è un Chiamparino in Emilia non si sa dove trovarlo. Certo una figura che lo ricorda bene è Del Rio e infatti lo si è invocato in campo, ma sacrificare per questo fine colui che è, per dire le cose come stanno, il Giuliano Amato di Renzi sarebbe una pura follia e infatti sembra che l’idea sia stata già archiviata. Adesso ufficialmente si proclama che il PD non ha paura ad andare alle primarie se ci sono tanti candidati in campo. La dichiarazione è d’obbligo, ma non dice la verità: il passaggio metterà a nudo il tramonto di un sistema di gestione della selezione della classe politica, incapace di produrre “leader”, perché si è troppo cullata nell’idea che la specificità di questa regione fosse quella di produrre ottimi “amministratori” (della “ditta”, come la chiama Bersani?).
Eppure nei tempi di crisi, e questo lo è anche per l’Emilia Romagna che non è per nulla un’isola felice, c’è bisogno di leader piuttosto che di amministratori. La vicenda di Renzi l’ha platealmente dimostrato a livello nazionale, ma non sembra che la struttura profonda del PD abbia capito la lezione.
Certo c’entra anche il fatto che al leader nazionale che s’impone piace poi pensare di essere un “unicum”, per cui per gli altri ruoli si può magari lasciare solo qualche surrogato minore. Però sarebbe meglio convincersi che le cose non stanno esattamente così. (14 lug)
(da mentepolitica.it)

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