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INGLESI ALLA URNE
INSTABILITA’ ALLE PORTE

di Antonio Armellini

Il costume politico dell’Europa, con i sui riti, le sue modalità, compromessi e instabilità è entrato a gamba tesa nella tenzone elettorale in Gran Bretagna.  Si realizza il paradosso che, proprio nel momento in cui discute concretamente della possibilità di uscire dall’Ue, il paese si appresta a vivere le elezioni più “comunitarie” della sua storia recente. A pochi giorni dall’apertura delle urne, laburisti e conservatori sono bloccati in un testa a testa di cui è impossibile pronosticare il vincitore. 

David Cameron non è riuscito a tradurre gli indubbi risultati ottenuti sul piano economico in un messaggio elettoralmente vincente; abile tattico più che stratega di fondo, gli è mancato quel quid di retorica e di populismo che in campagna elettorale aiuta e che di certo non fa difetto al suo più pericoloso rivale - il sindaco di Londra, Boris Johnson - che attende dietro le quinte (ma non troppo) gli eventi pronto, a seconda del risultato, a inserirsi nella vittoria o a raccogliere le macerie.  Ed Miliband non ce l’ha fatta a scrollarsi di dosso l’immagine di leader un po’ arrogante, la cui mancanza di comunicativa rende difficile il rapporto con un elettorato che vorrebbe essere rassicurato nella propria ansia di rivincita. Il suo discorso piace alla sinistra ma non convince gli orfani di Blair i quali attendono sornioni - a partire dall’ ex “principe nero” Peter Mandelson - di vedere se riuscirà a non lasciare lungo la strada una fetta troppo consistente del voto di centro su cui, in ultima analisi, si giocherà la partita fra i due principali contendenti.

I programmi elettorali sono stati giudicati dalla maggioranza degli osservatori privi di contenuti atti a favorire uno spostamento significativo di consensi.  Negli ultimi giorni l’attenzione sui temi dell’immigrazione - che era stato il cavallo di battaglia un po’ di tutti - ha ceduto il passo a quello dell’economia, in una girandola di populismi di opposto segno che sembrerebbe destinata a concludersi in un ulteriore pareggio. 

Se il voto labour rappresenta il cuore e quello tory la testa (e il portafoglio), le ultime battute potrebbero vedere uno spostamento a favore dei conservatori; non se ne vedono per ora le tracce e le speranze di Cameron potrebbero ora appuntarsi sul ritorno di fiamma del sentimento monarchico a seguito dell’arrivo del nuovo “royal baby”, che di norma gioca a favore dei partiti conservatori. La verità è che nessuna delle categorie interpretative tradizionali è applicabile ad una situazione che si presenta del tutto nuova: la logica del sistema maggioritario basata su un unico vincitore non è più in grado di rappresentare la realtà di una società sempre più complessa.

È vero che il governo uscente è stato anch’esso figlio di una coalizione, vissuta come una anomalia temporanea; adesso però quell’anomalia si va trasformando in un dato strutturale.  Le coalizioni - la novità “europea” - sono destinate ad entrare stabilmente a far parte del quadro politico britannico.

A meno di ribaltoni dell’ultimo minuto, la natura del prossimo governo britannico sarà determinata in misura significativa da chi fra i liberaldemocratici e i nazionalisti scozzesi dell’Snp (Scottish National Party) entrerà a far parte della coalizione.  Il meccanismo elettorale farà sì che il peso in termini di seggi degli antieuropei dell’Ukip sia irrilevante: gallesi, unionisti nord-irlandesi e Verdi potranno al massimo fare da portatori d’acqua per coalizioni già definite. I liberaldemocratici di Nick Clegg pagheranno a quanto pare con un salasso elettorale un prezzo ingiusto per una avventura di governo, che li ha obbligati a compromessi mal digeriti dal loro elettorato, ma che ha permesso loro di esercitare un’influenza moderatrice sulle tentazioni estremiste del socio conservatore.  Dovrebbero mantenere comunque un numero di seggi non inconsistente e si apprestano a rimanere alla finestra, in attesa di vedere quale potrà essere l’offerta più interessante.

I nazionalisti dell’Snp stanno per cogliere un successo storico, conseguito cancellando di fatto la presenza del partito laburista nelle roccaforti storiche scozzesi (e, di conseguenza, riducendone in maniera forse decisiva le possibilità di vittoria al Parlamento di Westminster).   Un governo di coalizione Snp-labour sarebbe quello politicamente più omogeneo, ma l’ostilità di Miliband nei confronti di chi gli avrebbe impedito di esercitare appieno il potere potrebbe essere un osso duro da superare.

Il tema dell’Europa, che è rimasto un po’ in sordina nella campagna elettorale, riprenderebbe centralità nel quadro di una coalizione.  Per i liberali, sarebbe difficile immaginare l’ingresso in un governo Cameron che non si impegnasse nei fatti, se non nella retorica, ad annacquare la portata di un referendum sull’Europa nel 2017. 

Per gli scozzesi dell’Snp per contro, un referendum sull’Europa che decidesse l’uscita di Londra dall’Ue, potrebbe risultare in un assist fortissimo all’obiettivo di una Scozia indipendente all’interno dell’Ue e potrebbe indurli, quindi, ad un atteggiamento più tattico.  Molto dipenderà dalla possibilità per uno dei partiti maggiori di raggiungere un risultato che renda possibile un governo di coalizione, aldilà delle formule: labour-liberali, labour-Snp, conservatori-liberali, appoggi esterni.

L’insufficienza dei numeri, e la difficoltà di muoversi nella terra incognita delle logiche di coalizione, potrebbe risultare alla fin fine nella formazione di un governo di minoranza, con appoggi esterni variabili, destinato ad avere vita breve e cedere entro un paio d’anni il passo a nuove elezioni.  Dalle quali il quadro rischierebbe di uscire, se possibile ancora più frammentato. Per un paese che aveva appena introdotto il principio della durata fissa della legislatura, sottraendola alla libertà di scelta del primo ministro, si tratterebbe di uno sviluppo per molti versi dirompente e, al tempo stesso, sarebbe un segnale inequivocabile dell’inevitabilità di un rivolgimento in profondità del sistema politico.

Assorbire regole e meccanismi, e diventare più “europei”, non sarà facile né indolore, Lord Meghnad Desai, l’economista anglo-indiano, ha evocato la possibilità di una inedita “grande coalizione” come via d’uscita dall’instabilità. Più che una proposta, sembra una brillante provocazione, che indica il percorso di un futuro forse inevitabile, ma ancora lontano.

 


( da affarinternazionali.it  )

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