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EMERGENZA E RESPINGIMENTI
COSA (NON) SI PUO’ FARE

EMERGENZA E RESPINGIMENTI<br>COSA (NON) SI PUO’ FARE

di Natalino Ronzitti

In questi giorni la pressione immigratoria proveniente dalla Libia e diretta verso le nostre coste è aumentata e si levano le voci più disparate. Talune di chiaro sapore razzista, altre allarmistiche per il timore del diffondersi di epidemie. Alla confusione non sfuggono i rimedi proposti che vanno dal blocco navale all’uso delle armi per attuare i respingimenti.

Per far fronte all’ondata migratoria si propone una ripartizione tra gli Stati dell’Unione europea (Ue), che viene puntualmente respinta, nonostante quanto stabilito dalla Commissione europea. Si evoca allora un piano B, non meglio identificato, o si auspica il soccorso della comunità internazionale, ritenuta responsabile dell’intervento in Libia, come se l’Italia, pur di malavoglia, non fosse stata in prima fila nell’impresa contro Gheddafi.

Cechiamo di metter ordine. Il blocco navale è un non senso. È una misura di guerra e costituisce aggressione, qualora non sia invocabile la legittima difesa. Il che non è. Tranne che non si voglia classificare l’esodo dalla Libia come una forma di attacco armato. L’unico precedente, subito sconfessato, fu la massa dei rifugiati provenienti dal Bangladesh, invocato dall’India per intervenire in quel territorio allora facente parte del Pakistan (1971). Quanto alla solidarietà europea, i nostri governanti farebbero bene a ricordare ai loro partner il regolamento 656/2014, in materia di gestione delle frontiere marittime, che stabilisce testualmente che le politiche dell’immigrazione e dell’asilo dovrebbero essere governate dal principio di solidarietà e dall’equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri.

In terzo luogo occorre chiaramente distinguere tra migranti per motivi economici e rifugiati, cioè di persone che fuggono dal paese di residenza per timore che la loro vita o libertà siano minacciate a causa della razza, religione, nazionalità o appartenenza a un certo gruppo sociale o opinioni politiche. Come si vede una condizione sufficientemente ristretta, che implica l’effettivo timore di una persecuzione.
Sono ammissibili misure di interdizione, cioè di respingimento dei barconi in alto mare?
Australia e Stati Uniti, che sono vincolati come gli Stati Ue dalla Convenzione del 1951 sui rifugiati, rispondono affermativamente, poiché a loro parere la Convenzione obbliga al non respingimento solo se il richiedente asilo si trova nel territorio dello stato e non in alto mare. La Corte Suprema australiana ha riaffermato questo principio in una recente sentenza del 28 gennaio 2015.
Questa interpretazione presta il fianco a molte obiezioni dopo la sentenza Hirsi (2012), in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver ricondotto in Libia un gruppo di profughi somali ed eritrei dopo averli soccorsi ed imbarcati su una nave da guerra. È vero che si potrebbe impedire alle imbarcazioni cariche di migranti/profughi di proseguire ed obbligarle ad invertire la rotta, senza alcun contatto con la nave da guerra. Ma questo potrebbe mettere in pericolo il barcone e comportare la perdita di vite umane.

L’Ue è vincolata dalle norme sull’asilo sia nel Trattato sul funzionamento dell’Ue sia nella Carta dei diritti fondamentali, che peraltro non specificano la loro applicabilità in alto mare. Anche il citato Regolamento 656/2014 impone il rispetto di tutta una serie di obblighi internazionali tra cui la salvaguardia della vita umana in mare e dello status di rifugiato, incluso il principio di non respingimento.

Tutti questi motivi sconsigliano la trasformazione della missione Triton da una mera missione di sorveglianza in una missione di interdizione.

Per il momento le speranze restano appese alla missione EunavforMed, adottata nell’ambito Pesce deliberata con Decisione 2015/778 del Consiglio dell’Ue, che dovrebbe comportare una presenza (armata) sulle coste libiche. Il pensiero va alla Missione Atlanta e dei successi conseguiti nella lotta alla pirateria, ma i nodi da risolvere nel caso libico sono molto più complessi, poiché non si tratta solo di operare in mare.

Per ora è stata disegnata solo la fase 1 dell’operazione Eunavfor, che prevede solo la pianificazione, ma non le fasi 2 e 3, le più impegnative, che dovrebbero comportare il sequestro dei natanti e lo smantellamento della rete dei trafficanti. Per rendere operativa la missione si attende luce verde da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Occorrerà vederne il contenuto, sempre che sia effettivamente adottata e che qualche membro permanente (vedi Russia) non ponga i bastoni tra le ruote.

Ma è giuridicamente possibile attuare la missione Eunavfor (o altra di simile portata) senza l’autorizzazione del Cds?. Si, se c’è il consenso dell’avente diritto, cioè del Governo di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale. Inoltre si potrebbe operare, solo ai fini su accennati, anche il riconoscimento del Governo di Tripoli, come entità insurrezionale. Dal territorio sotto il suo controllo ha origine, infatti, una buona parte dei traffici.
Obiettivi più ambiziosi sono difficilmente conseguibili. Ad esempio, per evitare di essere accusati di violare l’obbligo di non respingimento, occorrerebbe istituire dei centri in Libia in cui fare lo screening dei richiedenti asilo e collocare in appositi campi profughi coloro che hanno diritto allo status di rifugiato, qualora non si voglia ospitarli nei paesi europei. Ma un tale obiettivo diventa ingestibile in una situazione di caos e guerra civile, che rischierebbe di coinvolgere di nuovo gli europei dopo il passo falso del 2011.

(da www.affarinternazionali.it)

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