Ancora un Primo Maggio mutilato dal Covid, ancora una Festa del Lavoro senza lavoro. Per quanto scontata è un’anormalità inquietante che sta in uno spazio temporale fuori dalla storia e che può essere accettabile solo col ricorso a quell’ottimismo della ragione che ci aiuta a pensare che si potrà presto tornare a vivere liberi dalla morsa della paura e dell’incertezza. Non che nei centotrentadue anni che ci separano dalla istituzione di questa celebrazione siano mancati momenti difficili in cui essa è stata vietata o immiserita a una pantomima da regimi autoritari ma quella di oggi è un unicum che nessuna oscura previsione avrebbe potuto mettere nel conto. Le sue caratteristiche la rendono eccezionale nella sua drammaticità, ma non la cancellano. Al contrario la caricano di valori che forse sono stati trascurati e sottovalutati e che, anche per questo, oggi devono essere recuperati come un impegno per il futuro nel quale il Primo Maggio torni ad essere la festa del lavoro. Nell’attesa, che si spera sia breve, ci si dovrà accontentare di una cerimonia a misura Covid fatta di incontri a distanza, in numero ridotto, senza coreografia. L’esatto opposto di quello che è sempre stato il format popolare, condiviso, partecipato, del Primo Maggio. Corteo tra ali di folla nei centri delle città, con comizio finale dei sindacati, bandiere, striscioni, canti e musica, tutto rinviato a tempi normali, mentre permane l’urgenza di superare l’ostacolo del Covid e affrontare e risolvere il problema del lavoro: quello contingente delle tante aziende alle prese con delocalizzazioni selvagge e tentativi di salvezza spesso affidati ad avventurieri da una politica pronta a vendere l’anima per un pugno di voti, quello strutturale della creazione di opportunità di nuova occupazione che tenga conto dei grandi cambiamenti tecnologici dell’industria e dei mercati. Con l’attenzione rivolta al Recovery plan, senza rinnegare il passato ma guardando con realismo a un futuro che è già presente e si legge nei numeri delle aziende in crisi, dei posti di lavoro perduti, dei giovani in cerca di occupazione dal Nord al Sud del Paese. Questo cambio di marcia è il modo migliore per celebrare una festa dei lavoratori che nella sua diversità ricorda le parole profetiche di Sandro Petrini. Diceva il presidente socialista della Repubblica nei primi anni Ottanta: “Io credo nel popolo italiano. E’ un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo”. Lavoro e salute. Più attuale di così.
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