Inizia l’ultimo quadrimestre di un anno che non è stato facile. Non sappiamo se quest’ultima fase consentirà un po’ di sollievo. Dipenderà da fattori oggettivi, ma anche dalle varie soggettività che affollano la vita politica. È banale ricordare che anzitutto avrà un ruolo fondamentale l’andamento della pandemia. Se, come molti prevedono, continuerà il trend attuale che la vede abbastanza sotto controllo, sarà meno complicato procedere sulla via delle misure di rafforzamento delle difese a livello sociale, a cominciare dall’estensione del green pass. L’obbligo vaccinale rimane una misura non semplice da adottare, perché le resistenze di una parte dei parlamentari sconsigliano una battaglia nelle Aule, dove ormai il disciplinamento degli umori è scarso. Sembra se ne sia reso conto anche Salvini, che lascia intendere di accettare una estensione del green pass evitando così un confronto sulla questione di fiducia che altrimenti il governo sarebbe stato costretto a porre. Tanto le materie su cui fare “agitazione” non mancano: adesso, visto il successo relativo dell’attacco alla ministro Lamorgese, punta tutto sulla abolizione del reddito di cittadinanza. È una mossa per gettare zizzania nel campo del centro-sinistra, visto che si tratta della bandierina a cui i Cinque Stelle sono più affezionati e che il PD difende per ragioni di alleanza. In realtà tutti sanno, Conte e i suoi inclusi, che così com’era stato pensato il reddito di cittadinanza non ha funzionato: troppo un miscuglio mal congeniato di sussidio alla povertà e di aiuto ai lavoratori non occupati, specie giovani, che dovevano essere sostenuti mentre gli si trovava un’occupazione.
È finito che non si è né aiutata la povertà, per le difficoltà burocratiche di ottenerlo e per l’inconsistenza del sussidio di fronte ai casi gravi, né fornito un sostegno ai non occupati portandoli nel mondo del lavoro, visto che il numero di coloro che hanno trovato un impiego è molto basso (mentre si sono buttati molti soldi in inutili “navigator”, ma soprattutto nel loro ancor più inutile capo fatto venire a condizioni principesche dagli USA). Così c’è da temere che finirà in un grande scontro più di terminologia che di sostanza: mentre tutti per forza di cose dovranno schierarsi per mantenere un sostegno ad una sacca di “senza reddito” (che alcuni stimano in tre milioni di soggetti), considerando che non si può certo lasciarli del tutto scoperti, si cavillerà per definire se il nuovo provvedimento è una miglioria di quello partorito dai Cinque Stelle o è una pietra tombale su di esso per far funzionare qualcosa di diverso.
È probabile che sia questa una delle bucce di banana su cui si cerca di mettere in difficoltà la maggioranza di ampia solidarietà che sostiene il governo Draghi. Certo molto dipenderà da come andrà il test delle elezioni amministrative, ma se, come è prevedibile, M5S non ne uscirà bene il panorama si complicherà: da un lato perché il duo Salvini-Meloni sarà portato a tentare la spallata all’alleanza PD-Cinque Stelle che invece è previsto abbia nel complesso un buon successo nella gara per i sindaci, dall’altro perché Conte sarà portato ad inasprire le pretese del suo movimento per mostrare che la sua forza almeno a livello parlamentare è ancora notevole.
Come si rifletterà questo sul governo Draghi? Da un certo punto di vista lo difende la sua insostituibilità, almeno sino a questo momento: nessuno ha pronto un cosiddetto piano B nel caso di un collasso dell’attuale maggioranza. Però è dubbio che la sua insostituibilità coincida banalmente con la sua forza, perché in definitiva molto della sua azione deve passare attraverso il parlamento e lì si possono avere tutti gli annacquamenti ed i compromessi a cui sono costretti tutti proprio per non cadere nel baratro di una crisi senza soluzioni. Però ciò significherebbe avere un governo costretto ad una azione di basso profilo nell’avvio e sviluppo del PNRR, il che significa dare spazio a tutte le lobby (e sono tante) che non vogliono dare corso a riforme che mettono in discussione posizioni e privilegi che hanno conquistato in questi anni. Quel che si intravvede nel settore della giustizia può dare un’idea di quanto potrebbe succedere in molti altri settori.
Aggiungiamoci che la coincidenza di questo clima con la scadenza del mandato del Presidente della Repubblica complica non poco le cose. Oggi tutti danno per scontato che si voterà in febbraio, ma a rigore a norma di costituzione (art. 85) già 30 giorni prima della scadenza del mandato dell’inquilino del Quirinale il presidente della Camera può convocare l’Assemblea Nazionale per l’elezione, sicché si potrebbe anche votare ai primi di gennaio. Ciò significa che a far tardi da fine novembre le fibrillazioni fra le forze politiche per sistemare questa partita raggiungeranno il loro acme, con tutte le conseguenze per il lavoro del governo che è facile immaginare.
È vero che se la campagna contro la pandemia confermerà il suo successo, ovviamente circoscritto perché tutto non si può chiudere in pochi mesi, e se l’economia continuerà a registrare buoni risultati (tenendo conto però che questo vale in generale, poi ci sono le sacche di crisi), attaccare Draghi e il suo governo significherebbe divorziare dal sentimento della grande maggioranza del paese. Purtroppo però a questi divorzi i politici non sono nuovi.
(da mentepolitica.it)
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