di Paolo Pagliaro
Trump, come altri leader in tutto il mondo, è convinto dell’assoluta irrilevanza della verità. Nella precedente vittoriosa campagna elettorale, tra le altre cose aveva sostenuto che la disoccupazione era al 49% mentre in realtà era al 5. Aveva promesso di risparmiare 300 miliardi per l’assistenza sanitaria pubblica, impresa impossibile visto che l’intera spesa non superava gli 80 miliardi. Aveva detto che le tasse negli Stati Uniti erano le più alte del mondo, mentre erano e sono tra le più basse. Aveva accusato migliaia di musulmani del New Jersey di aver esultato alla caduta delle Torri Gemelle, episodio mai accaduto. In uno dei suoi primi spot televisivi aveva mostrato gruppi di messicani che attraversavano illegalmente il confine con il Texas, mentre si trattava di migranti in fuga dal Marocco verso l’Europa. Politifact, noto portale di fact checking, attribuì a Trump l’1% di affermazioni vere, il 7% di prevalentemente vere, il 14% di mezze falsità, il 17% di dichiarazioni perlopiù false, il 41% di affermazioni false, e ben un 20% di pants on fire, cioè bugie inverosimili, senza alcuna attinenza con la realtà.
Il copione si è ripetuto poche ore fa nel duello televisivo con Kamala Harris. Trump ha affermato che in alcuni stati i democratici consentono l’aborto nel nono mese o dopo la nascita dei bambini, cosa non vera. Ha detto che nell’Ohio i migranti rubano cani e gatti per mangiarli, fatto smentito dal sindaco di Springfield. Ed è tornato a sostenere che la sua mancata rielezione nel 2020 fu il frutto di una frode, accusa giudicata infondata da diversi tribunali. Ma anche per Trump è importante che le notizie piacciano, non che siano vere.