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Che cosa accomuna
la Brexit e il Leicester

Che cosa accomuna <br> la Brexit e il Leicester

Giulia Guazzaloca

Se si guardano tre dati apparentemente distanti tra loro, soprattutto i primi due col terzo, può sorgere il dubbio che in Gran Bretagna stia tramontando la stagione del nazionalismo aperto e cosmopolita, accogliente e multiculturale, così come quella della sinistra liberal, all’americana, socialdemocratica e neoliberista. Il primo dato riguarda ovviamente l’accesa campagna del Vote Leave in vista del referendum sulla Brexit (l’uscita del Regno Unito dalla UE) previsto per il prossimo 23 giugno; anche se gli ultimi sondaggi rivelano che il 54% della popolazione sarebbe a favore della permanenza nell’Unione Europea, per molti mesi il divario tra favorevoli e contrari è stato minimo. La seconda novità è la svolta, ideologica e programmatica, che Jeremy Corbyn sta imponendo al partito laburista; eletto alla guida del Labour lo scorso settembre, si colloca molto più a sinistra di tutti i leader che l’hanno preceduto dal 1935 in poi, intende azzerare (o quasi) l’eredità di Tony Blair e Gordon Brown, afferma che «la Gran Bretagna può imparare da Karl Marx».

Il terzo elemento non ha a che vedere con la politica, ma è a suo modo sorprendente; sta facendo discutere gli esperti del settore di tutta Europa e in parte può essere visto come una sorta di riscossa dell’Inghilterra «profonda», operaia, lontana dai circuiti dei grandi mercati internazionali. Si tratta dell’inaspettato successo del Leicester nel campionato di calcio inglese. È vero che la squadra appartiene ad un magnate thailandese, classificato tra i dieci più ricchi del suo paese, ma non ha cercato di accaparrarsi le grandi stelle del calcio mondiale e, con un budget relativamente modesto, il Leicester sta ora mettendo in scena – è stato scritto – una nuova edizione dell’epica lotta di Davide contro Golia. Non solo: è la squadra di una piccola città industriale del centro dell’Inghilterra, lontana dalle grandi metropoli tanto quanto il Leicester City è distante dalle squadre storicamente regine del calcio inglese. Inoltre la sua icona, Jamie Vardy, è un giocatore per molti versi sui generis: nato e cresciuto a Sheffield, da adolescente era stato scartato da una squadra della Premier League, era andato a lavorare in fabbrica e vi è rimasto fino a quattro anni fa quando ha esordito (a ben 25 anni) nel campionato professionistico. Insomma, un grande riscatto personale e professionale quello di Vardy, ormai visto come la personificazione moderna e maschile di Cenerentola; e proprio alla favola di Cenerentola molti continuano ad associare l’incredibile ascesa del Leicester.

Si tratta, come si diceva, di fenomeni indipendenti tra loro e solo una prospettiva storica di medio periodo ci potrà dire, in futuro, se le trasformazioni in atto nel calcio inglese sono profonde e strutturali e se, eventualmente, ci sono dei legami coi mutamenti di ordine politico, socio-economico e culturale. Ma qualche osservazione, del tutto approssimativa, consentono di farla.

Sembra che in Gran Bretagna sia in atto una sfida – e l’aspra campagna propagandistica pro e contro la Brexit ne è il simbolo – tra due opposte concezioni della nazione. Da un lato, quella cosmopolita, europeista, tollerante e multietnica, che si incarna in un modello altrettanto cosmopolita di democrazia e in un’economia aperta alle dinamiche della globalizzazione. Dall’altro, un’idea di nazione populista quando non apertamente razzista e xenofoba, che coltiva il «primato» nazionale e la paura del «diverso», che vede una minaccia tanto nell’integrazione europea quanto nel sistema economico globalizzato.

Nella propaganda a favore dell’uscita britannica dalla UE messa in atto dallo UKIP di Nigel Farage rientrano un po’ tutti gli ingredienti di un’idea di nazione che è pressoché l’opposto della «nazione cosmopolita» teorizzata da Anthony Giddens, tra l’altro consigliere di Blair e ispiratore della «terza via» del suo New Labour. Farage chiede più sovranità nazionale e meno burocrazie sovranazionali, attacca le banche che fanno speculazione finanziaria, solletica il tradizionale euroscetticismo dei britannici facendo leva sul problema dell’immigrazione e sulla minaccia del terrorismo islamico, rivendica gli interessi economici dei britannici presentando la UE come un’organizzazione costosa e corrotta, non democratica e lesiva della sovranità nazionale.

Il profilo politico e ideologico di Corbyn è diverso sotto molti aspetti da quello di Farage: il Labourè contrario alla Brexit, pur avendo scelto finora un basso profilo su tema, ma la ricetta economica di Corbyn «il rosso», subito battezzata dagli analisti corbynomics, prevede ampie nazionalizzazioni, la fine delle politiche di austerità, il rigetto dell’accordo di libero scambio transatlantico. Nelle ultime settimane, poi, sono scoppiate polemiche dentro e fuori il partito perché alcuni suoi esponenti (di secondo piano) e militanti si sono abbandonati a commenti antisemiti; commenti che Corbyn avrebbe tollerato con eccessiva magnanimità, sollevando le proteste non solo della comunità ebraica, ma anche di molti analisti e intellettuali. Per il «Guardian», tra gli altri, esiste il problema di una parte del Labour che tende a perdonare l’antisemitismo quando proviene da attivisti filo-palestinesi.

Il fatto che Corbyn abbia deciso di escludere McDonald’s dagli espositori che parteciperanno alla conferenza nazionale laburista a Liverpool il prossimo autunno poterebbe essere derubricato a semplice nota di costume, se non fosse che la stampa britannica ne ha parlato per giorni e alcuni esponenti del Labour si sono dissociati dalla scelta. Scelta motivata da Corbyn perché gli standard lavorativi e i rapporti con i sindacati della multinazionale non sono in linea coi princìpi del partito. E se in parte può c’entrare anche il fatto che Corbyn è vegetariano e da 20 anni difensore dei diritti degli animali, sicuramente a monte vi è la volontà di colpire uno dei simboli più noti e riconosciuti del capitalismo globale.
Probabilmente l’esito del referendum di giugno sarà un termometro importante per capire in quale modello di «nazione» si riconosce la maggior parte dei britannici. Ma sembra evidente che il corso della politica negli ultimi mesi stia facendo emergere il profilo e i bisogni di un’Inghilterra «profonda», attaccata alle sue radici più autentiche e molto diversa da quella che, dagli anni Sessanta in poi, ha fatto del multiculturalismo e del cosmopolitismo la cifra della propria identità. Si tratta ovviamente di una contrapposizione schematica e manichea, poiché da molto tempo nella storia della Gran Bretagna convivono assieme tutti questi elementi: l’attaccamento alla sovranità nazionale e il ruolo attivo nella finanza globale, i dubbi sull’integrazione europea e la pluralità etnico-religiosa e linguistica, il legame con le comunità locali e le spinte alla globalizzazione.

Oggi, però, è come se nella politica e nell’immaginario degli inglesi questo virtuoso equilibrio si sia spezzato. Sta facendosi strada un patriottismo radicale, tendenzialmente escludente e razzista, antieuropeista e protezionista, avverso tanto agli immigrati quanto ai processi di globalizzazione. Una strada che assomiglia molto ad un ritorno all’«antico». Del quale il Leicester City, suo malgrado, si potrebbe considerare il simbolo: Davide contro Golia.

 

(da mentepolitica.it )

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