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Nelle urne del referendum
un ventennio di antipolitica

Nelle urne del referendum <br> un ventennio di antipolitica

Paolo Pombeni

(12 dicembre 2016) Che in democrazia il voto popolare debba sempre essere rispettato come determinante è una ovvietà. Ritenere che sia un metro infallibile per giudicare la bontà o meno di una causa è una sciocchezza smentita dalla storia: vox populi, vox Dei è un aforisma da cui guardarsi. Ma su questo la riflessione è stata più che latitante, preferendo, per spiegarsi il grande successo dei contrari alla riforma costituzionale, rincorrere le spiegazioni più banali: quelle in politichese puntate sulla “antipatia” di Renzi, e quelle sociologiche che hanno attribuito la preponderanza del sì alle zone prospere e quella del no alle zone a più forte depressione economica.

Ci permettiamo di chiamare in campo qualche altro elemento, perché, se davvero il nostro paese vuole uscire da questa prova con qualche guadagno, è opportuno che si lasci alle spalle l’orgia di anticultura che ha connotato la passata campagna politico-elettorale.

Un primo dato da tenere in conto potrebbe essere la singolare posizione di una parte della sinistra che si è buttata a magnificare il consenso popolare al rigetto della riforma marcata Renzi, sostenendo che l’attuale segretario del PD non aveva capito da che parte stava il popolo, giudicato ovviamente sano. Singolare che quando quello stesso popolo votava massicciamente per Berlusconi avesse passato il suo tempo a parlare di una opinione pubblica drogata e manipolata.

Il fatto è che davvero nelle urne del 4 dicembre si è raccolto il frutto di un ventennio di antipolitica. Lasciamoci alle spalle l’ingenua idea che la maggioranza degli elettori, sia quelli che hanno votato no che quelli che hanno votato sì, avessero davvero conoscenza della materia del contendere. Qui non si tratta di difendere per principio una proposta di riforma che sicuramente poteva essere concepita meglio e spiegata in maniera più convincente, si tratta semplicemente di constatare che si trattava, come è sempre per le riforme costituzionali, di valutare se quanto proposto poteva o meno aprire la strada ad un ridisegno dei meccanismi di funzionamento della nostra democrazia. Non era possibile sciogliere con certezza il quesito, perché in politica l’efficacia delle riforme è sempre a rischio, e dunque nessuno può censurare chi abbia ritenuto che quelle nuove modalità non avrebbero funzionato. E’ invece possibile dire onestamente che si trattava di una valutazione troppo complessa per potere presumere che potesse essere esercitata con maturità da un corpo elettorale sfiancato da decenni di populismo mediatico.

In fondo ha funzionato un meccanismo molto semplice. Dopo vent’anni in cui si è urlato contro Berlusconi che si doveva difendere la costituzione da chi voleva manometterla per i suoi interessi, che c’era il complotto del capitale, che stava salendo lo spettro del nuovo dittatore, come ci si può meravigliare se quella retorica si è ritorta contro coloro che hanno tentato nuovamente una riforma del sistema politico (non della Costituzione in quanto tale!)? Il fatto che la maggioranza dei voti per il no si trovi nelle fasce d’età fino ai quarantacinquenni, si spiega facilmente col fatto che sono le generazioni formate nelle inutili occupazioni scolastiche, dove quegli slogan hanno imperato per anni. Dirlo è politicamente scorretto, ma a volte, come scriveva il vecchio Gramsci, dire la verità è rivoluzionario.
L’errore marchiano di Renzi è stato non avere avuto consapevolezza di questo vuoto di cultura politica che da solo avrebbe dovuto sconsigliare di impegnarsi in una battaglia che non avesse davanti il tempo per sopperire a quelle mancanze. Purtroppo il segretario/premier si è fatto prendere, se ci è consentito di richiamare uno dei primi articoli scritti per questo sito, da quella che chiamammo allora la sindrome di Napoleone: pensare che lui poteva capovolgere le strategie degli avversari sfidandoli in continuazione sul loro stesso terreno. Da un lato mostrando che lui sarebbe riuscito a fare le riforme che gli altri non erano stati capaci di fare, dal lato opposto rispondendo alle critiche con la logica che abbiamo chiamato del “a populista, populista e mezzo”. Sul primo versante avrebbe potuto sapere, avesse solo letto un po’ di storia, che spesso non va così: veda cosa accadde a Francesco Crispi, che fra 1887 e 1889 fece una delle più grandi operazioni di riforma del sistema della pubblica amministrazione, e che finì travolto da quella che venne definita la sua megalomania. Sul secondo fronte avrebbe dovuto rendersi conto che lo stile qualunquista che si addice alle opposizioni diventa controproducente sulla bocca di chi deve fare l’uomo di stato, soprattutto se è un leader giovane.

Tutto quanto abbiamo detto appartiene però un po’ troppo al genere: piangere sul latte versato. Adesso il tema su cui devono impegnarsi le classi dirigenti di questo paese, almeno quelle che non sono interessate solo a mantenere le loro posizioni in un potere traballante e che non si è affatto rinforzato, è come uscire da questa situazione. Il fatto è che non ce la si può fare né facendo finta di niente e ricostruendo un sistema largamente consociativo in cui nessuno sia veramente in grado di governare, né pensando di sfruttare lo scossone del 4 dicembre per provocare una seconda scossa tellurica che faccia tabula rasa del nostro sistema politico agevolando l’avvento di una nuova classe dirigente populista.

Entrambe sarebbero pessime soluzioni perché non ci consentirebbero di avere una buona posizione nel sistema internazionale (indispensabile in tempi di globalizzazione) e ci inchioderebbero alla incapacità di superare le debolezze che abbiamo accumulato negli ultimi quarant’anni della nostra vita politica (le quali sono purtroppo divenute strutturali).

C’è un gran bisogno di un rinascimento culturale in senso forte, perché senza quello sarà impossibile poter contare su un popolo che sappia davvero “fare politica”. E senza quello in democrazia non si va da nessuna parte.

(da mentepolitica.it)

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