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Fakenews, a Mosca
il capro espiatorio

 Fakenews, a Mosca <br> il capro espiatorio

di Nicola Melloni

(6 dicembre 2017) La democrazia occidentale è sotto attacco: no, non sono (solo) i terroristi islamici e gli immigrati (Minniti dixit), non sono di certo le banche e le diseguaglianze. A sentire un sempre maggior numero di politici e giornalisti, la crisi dell’Occidente è figlia dei cyber-attacks della Russia e delle cosiddette fakenews. Ci sarebbero i russi dietro l’elezione di Trump, la Brexitla secessione catalana e, si parva licetil fallimento del referendum costituzionale in Italia.

Cerchiamo innanzitutto di capire di cosa stiamo parlando. La Russia è accusata di un insieme generico di comportamenti leciti, semi-leciti e, talora, illegali atti a influenzare i comportamenti degli elettori.

Il problema ha assunto prominenza durante le elezioni presidenziali americane, quando alcune email di Hillary Clinton furono hackerate e rese pubbliche. Al momento non esiste nessuna prova concreta – anche se molti ragionevoli sospetti – che ci fosse il Cremlino dietro l’operazione. Quel che però è importante sottolineare è che, in questo caso, non stiamo parlando di fake news. Le email della Clinton erano vere.

A questo supposto atto di spionaggio sono poi seguite molte accuse di interferenza nei processi democratici di altri stati. I russi avrebbero – ed il condizionale è d’obbligo – disseminato notizie fasulle attraverso i social networks usando accounts finti e giocando quindi sulla vulnerabilità di un certo tipo di elettori. Non solo: recentemente la rete di Stato russa, RT, è finita nel mirino delle autorità americane che l’hanno obbligata a registrarsi come agente straniero, togliendole poi diverse credenziali per lavorare negli USA. Eppure non è accusata di aver pubblicato alcuna notizia fasulla – quello per cui viene attaccata è aver dato voce a movimenti di protesta come Occupy, a politici come Sanders o Jill Stein, o aver dato risalto a notizie che mettevano in dubbio la solidità della democrazia americana, dall’uccisione di teenager di colore al salvataggio delle banche.

Il quadro, come ben si capisce, è alquanto confuso. Attività di giornalismo – di parte quanto vogliamo - e diffusione di notizie fasulle finiscono nello stesso calderone, a cui vengono aggiunte attività di hackeraggio. Il risultato che ne viene fuori è, sostanzialmente, una accusa di propaganda fatta dalla Russia ai danni dell’Occidente.

Chiariamo: non ci sono dubbi che Putin abbia degli obiettivi geo-politici che passano anche attraverso l’indebolimento di alcuni stati occidentali e l’elezione di governi più bendisposti verso il Cremlino. E l’interferenza negli affari interni di un altro paese può a ben ragione essere vista come  un atto ostile – anche se certo non un atto di guerra.

Le reazioni scandalizzate, però, trasudano ipocrisia sotto qualsiasi aspetto le vogliamo vedere. Difficilmente l’hackeraggio di qualche email e attività di propaganda possono essere messe alla stregua di: colpi di stato, interventi militari, sanzioni economiche, assassini su commissione, ricatti di vario genere, finanziamento di ribelli o di ONG che organizzano tentativi di rivolta, armata o meno. Tutte cose ripetutamente fatte da USA, Francia, UK – tra gli altri – spesso pure in funzione anti-russa.

Al contempo, le attività di character assassination sono all’ordine del giorno nella politica americana – senza che questo desti particolare scalpore. Così come le intromissioni – legali, via lobbying e funding – di potenze straniere nella politica interna degli USA. Per quel che poi riguarda la partigianeria e la propaganda via media, nessuna democrazia si sognerebbe mai di discutere e intralciare la linea editoriale di una testata. Il problema, dunque, non sembrano certo i cosiddetti atti sovversivi, quanto piuttosto il mandate: la fobia anti-russa rimanda ai peggiori anni della Guerra Fredda, con i suoi inevitabili risvolti di politica interna. L’accusa di essere al servizio dei russi viene dispensata a piene mani contro qualsiasi genere di oppositore: da Sanders a Corbyn, fino a Grillo.

Infine, le fakenews. Se ne parla come se fossero un fenomeno nuovo, inventato al Cremlino e possibile solo grazie ai social media. Ovviamente non è così: dall’invasione delle Filippine alle supposte armi di distruzione di massa di Saddam, la storia americana è piena di bugie generate dal governo e diffuse dalla stampa “indipendente”. Forse, prima di prendersela con i social media, i giornalisti dovrebbero ricordare la lezione di I.F. Stone, e cioè che “tutti i governi mentono”, e che il vero pericolo per la democrazia risiede nella verità ufficiale. E d’altronde, se i social media fanno così paura, ci sarebbe più da preoccuparsi da una eventuale corsa presidenziale di Mark Zuckerberg che di quello che fa Putin (che l’articolo linkato di Politico faccia riferimento alle collusioni russe di Trump e non al potere mediatico del fondatore di Facebook è illuminante).

Politicamente, sembra che l’establishment abbia trovato in Putin il nemico giusto al momento giusto: da una parte la minaccia esterna serve, come sempre, a serrare le fila di uno Stato in difficoltà. Dall’altra, la Russia diventa il perfetto capro espiatorio dietro cui nascondersi e cui addossare tutte le colpe: dall’incapacità della Clinton al disastro inglese fino alla crisi spagnola. Un nemico così perfetto che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.

(da mentepolitica.it )

 

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