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direttore Paolo Pagliaro

Una ragione in più
per tenersi l’euro

Gianpaolo Rossini

Tra poco scattano i dazi di Washington su acciaio e alluminio europei. L’amministrazione Usa non si ferma e, anche se negozia con tutti, non recede dalle politiche restrittive annunciate da Trump. I dazi sospesi qualche settimana fa per Ue e partner Nafta, (Messico e Canada) che insieme coprono quasi il 50% del consumo americano dei due metalli, ora sono realtà. La giustificazione è la sicurezza nazionale. Il ministro del commercio Ross dichiara che solo un’economia forte è sicura. Quindi ogni politica protezionista che sostenga le imprese americane può essere adottata con questa stringa un po’ farlocca ma che serve ad evitare l’intrusione del WTO.  Il vecchio continente contava sul suo ruolo di alleato strategico nella Nato tirando in lungo i negoziati. Ma questo non è servito. Sul versante delle relazioni con la Cina sembrava essere stato raggiunto un accordo con un impegno del dragone a tagliare il surplus di conto corrente della bilancia dei pagamenti con gli Usa, che dura dal 1985, di quasi la metà, da 400 a 200 miliardi di dollari annui.  Washington ritiene queste promesse generiche e prepara dazi contro le importazioni cinesi.  Per l’Europa non è finita e all’orizzonte ci sono dazi sulle auto e altri manufatti con la medesima giustificazione.
Quali sono gli obiettivi della politica commerciale di Trump? In primo luogo metter in un angolo il WTO. Un vecchio tarlo che ha afflitto le amministrazioni Usa quasi dalla nascita nel 1995 del WTO. Nel 1999 la prima manifestazione violenta contro la globalizzazione fu a Seattle in occasione di una sessione del WTO. Organizzata dai sindacati Usa fu avallata da una larga fetta del partito democratico con Clinton presidente. A differenza delle istituzioni globali, sorte nel 1944 a Bretton Woods (FMI e Banca Mondiale) nel WTO ogni paese conta per un voto. Malta come Washington. Trump mettendo in disparte il WTO e colpendo il Nafta con i dazi verso Messico e Canada, vuole liberarsi da ogni residuo di multilateralismo, una pratica che gioca più a favore dei paesi medio piccoli che di quelli grandi che si sentono un po’ come Gulliver prigioniero dei piccoli Lilliputziani. 
Ma l’obiettivo primario di Washington è la riduzione dello squilibrio cronico dei conti con l’estero frenando la riduzione dei posti di lavoro in settore manifatturieri tradizionali. I dazi riusciranno a rivitalizzare solo poche imprese ahimè deboli. Ma la volontà di ridurre gli squilibri che vedono un debito estero netto pari a circa il 60 del Pil è concreta. Le precedenti amministrazioni Usa hanno più volte sollecitato asiatici ed europei con forti surplus commerciali ad espandere la spesa interna o a lasciare rivalutare il cambio (nel caso dello yuan cinese). Hanno chiesto insomma di fare ciò che il vecchio FMI fino a circa 40 anni fa consigliava: chi aveva un persistente surplus di conto corrente doveva rivalutare o, in caso di cambio fisso, espandere la spesa con adeguate politiche fiscali. Una richiesta più volte rivolta a Cina e Germania i quali però non hanno fatto nulla. La Cina è ossessionata dal suo ruolo egemone in Oriente che ritiene possibile solo con una forte posizione creditizia sull’estero ovvero con un accumulo straordinario di riserve valutarie, viste come le moderne munizioni non solo per difendersi, come avveniva fino alla fine del secolo scorso, ma anche per essere protagonista nei mercati finanziari globali. La Germania, poco attenta al suo ruolo nello scacchiere globale, prigioniera delle regole da lei create, seguita a perseguire l’obiettivo di un deficit pubblico nullo o di un surplus per giungere ad un debito pubblico sotto il 60% del pil. Il perseguimento di questo obiettivo grigia bandiera della pubblica amministrazione tedesca, imbottita ahimè di giuristi ed economisti scarsamente versati nella macroeconomia internazionale, genera da anni in un crescente di surplus con l’estero, risultato congiunto di una buona competitività e di un eccesso di risparmio. Nessun paese al mondo infatti, seppur ai vertici della competitività, avrà mai un surplus commerciale se simultaneamente non risparmia “troppo”. Ovvero se presta suoi risparmi agli stranieri che a loro volta devono indebitarsi a conseguenza del loro deficit speculare al surplus (tedesco).  

Le nuove politiche Usa con l’armamentario protezionistico che credevamo consegnato alla storia devono fare meditare gli italiani. Chi crede nella possibilità di guadagnare competitività svalutando, magari con una moneta nazionale, deve sapere che Usa e altri paesi non faranno sconti e reagiranno con misure protezionistiche compensative.
L’Italia ha un surplus commerciale con gli Usa da circa due decenni e nel 2017 ha toccato i 31 miliardi (64 per la Germania). Se possiamo permetterci di elevare questo surplus svalutando allora possiamo seguire Pinocchio e seminare  zecchini. Il guaio è che la stragrande maggioranza non sa che il Bel Paese ha conti con l’estero in forte surplus da 5 anni (nel 2017 è prossimo al 3% del Pil). L’amministrazione Usa vuole fare imparare queste cifre a Cina, Ue e resto del mondo. Ciascun paese può fare ciò che vuole con i conti pubblici ma su quelli con l’estero Washington sarà attenta e severa. Già ora sono possibili misure protezionistiche da parte Usa verso l’Italia, in aggiunta a quelle già annunciate. Se poi uscissimo dall’euro con una moneta svalutata queste misure sarebbero ancora più severe vanificando del tutto i presunti guadagni di competitività, di cui peraltro non abbiamo bisogno visto lo stato dei nostri conti con l’estero. Ci rimarrebbero  solo le macerie finanziarie di una uscita ingiustificata su piano commerciale e dissennata sul piano finanziario.

(da mentepolitica.it)

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