(5 ottobre 2018) Qualche volta giova ricordare gli elementi strutturali delle situazioni che analizziamo. La partecipazione italiana all’Unione europea deriva da decisioni prese e riaffermate nel corso del tempo dai governi e dai Parlamenti. Ha un suo solido fondamento costituzionale nell’art. 11 della Costituzione che sancisce che “L’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Non possono esserci dubbi che l’Unione europea è una di quelle organizzazioni. Inoltre, è l’organizzazione alla quale l’Italia ha dato significativi contributi, anche con le energie di suoi rappresentanti, da Spinelli a Prodi, da Monti a Bonino, e più di recente, da Mogherini a Tajani e, in modo del tutto straordinario, Draghi. E’ quella il cui funzionamento l’Italia può meglio e più direttamente influenzare. Naturalmente, per esercitare influenza, da un lato bisogna credere negli obiettivi e nelle capacità di quell’organizzazione, dall’altro bisogna essere credibili come Paese e come persone.
In qualsiasi attività che richieda sforzo e impegno continuativi, è giusto chiedersi quale sia il tornaconto, la convenienza; ma nel momento in cui si crede nel processo di unificazione politica dell’Europa come il più importante fenomeno storico della seconda metà del secolo XX, diventa anche opportuno agire in base alla convinzione.
Con queste premesse, mi permetto di obiettare all’ambasciatore Nelli Feroci che sembra voler portare il discorso sull’Europa alla pura e semplice convenienza per l’Italia, “malgrado tutto”, di continuare a farne parte. Nel frattempo, i britannici stanno già pagando il conto della loro inopinata exit e giorno dopo giorno capiscono che nessun isolamento potrà mai più essere “splendido”.
Sicuramente, più deboli, economicamente, culturalmente, e meno ‘identitari’, gli italiani pagherebbero un prezzo ancora più alto se dovessero abbandonare l’Unione europea o anche soltanto allentare i legami con le sue istituzioni. I sovranisti, non soltanto quelli italiani, debbono ancora spiegare in che modo i problemi della crescita economica, della riduzione delle diseguaglianze, dell’immigrazione, che sono difficili da risolvere nell’ambito di una Unione fra 27-28 Stati, sarebbero affrontati e risolti da uno Stato che operi da solo, senza soffrire gli inevitabili contraccolpi della sua uscita che sarebbe comunque traumatica.
Poiché, però, ho spostato il discorso dalle convenienze alle convinzioni, il quesito da sollevare è quanto gli italiani credano oggi nella loro identità nazionale e quanto in una aggiuntiva identità europea, quanto pensino che il loro futuro e quello dei loro figli sia preferibile in un più ampio consesso di popoli oppure sia unicamente praticabile con efficacia nel cortile della loro casa.
Fare della partecipazione all’Unione europea una mera adesione di convenienza è riduttivo, sbagliato, diseducativo. Affermare come vado predicando che nell’Unione europea bisogna stare per convinzione (che è il luogo in assoluto migliore per i cittadini degli Stati-membri e per coloro che chiedono l’adesione) richiede che i ‘convinti’ procedano a spiegare indefessamente i pregi e le potenzialità dell’Unione. L’ha fatto fino al suo ultimo respiro il fondatore dell’Istituto Affari Internazionali, Altiero Spinelli. Gli dobbiamo l’impegno ad andare avanti.