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Più politica che economia nei dazi di Trump

Più politica che economia nei dazi di Trump

di Lucia Tajoli

Nelle ultime settimane, le questioni legate al commercio internazionale hanno continuato a essere centrali nella retorica del Presidente Trump, che ha aperto diversi fronti di scontro o di possibile negoziato con vari paesi. Con l’avvicinarsi delle elezioni di midterm negli USA, ci si domanda se la strategia di Trump in materia di commercio estero abbia dei fini elettorali precisi. In linea generale, la protezione di alcuni settori produttivi nazionali e la ricerca di un “nemico esterno” sono strategie elettorali che possono essere vincenti, come ha già mostrato la sua stessa elezione di due anni fa.
In passato la politica estera ha contato relativamente poco nelle elezioni americane, mentre le questioni economiche risultano solitamente più centrali per i cittadini. Se davvero è così, la guerra commerciale di Trump può essere utile non tanto per affermare lo status degli USA sui mercati mondiali e ribadire lo slogan “America first”, ma solo se produce effetti visibili per gli elettori.
Ma gli effetti economici di una guerra commerciale sono quanto meno controversi. Le guerre commerciali, al contrario di quello che sembra pensare il Presidente americano, non sono affatto facili da vincere, e soprattutto producono sempre all’interno del paese che mette in atto politiche protezionistiche sia vincitori che vinti: le imprese e i lavoratori dei settori che vengono protetti possono avere dei benefici nel breve periodo, ma gli effetti della protezione sono quelli di aumentare i prezzi in molti settori, con costi per i consumatori e per le imprese che utilizzano determinati input.
Inoltre, l’aumento dei dazi americani ha innescato reazioni da parte di altri paesi, come la Cina o l’Unione Europea, che a loro volta hanno ostacolato le esportazioni USA, danneggiando altri settori americani. Si è visto infatti che per la maggior parte delle imprese gli effetti sono più negativi che positivi, e l’andamento della borsa di New York delle ultime settimane mostra il nervosismo degli investitori per la situazione di incertezza che la guerra commerciale sta creando. Per i lavoratori la perdita di competitività o di accesso ai mercati esteri di alcune produzioni americane può portare a ulteriori effetti negativi. Quindi sembra difficile immaginare che la politica commerciale sia strumentale a sostenere l’economia americana e quindi indirettamente il consenso elettorale: non è affatto scontato che le ricadute economiche della guerra commerciale aiutino il Partito Repubblicano nelle urne. Nonostante la buona salute complessiva dell'economia USA, molti osservatori pensano che il ciclo economico positivo americano sia alle battute finali e le tensioni sui mercati esterni possano aumentare le difficoltà dei prossimi mesi.
È più plausibile pensare che i dazi abbiano non tanto una finalità economica ma piuttosto politica. Da questo punto di vista è illuminante la conclusione recente della rinegoziazione dell’accordo di libero scambio nordamericano, il Nafta. Secondo gli economisti – americani e non – la nuova versione dell’accordo, rinominato USMCA, non comporta grandi cambiamenti, forse qualche modesta espansione della produzione automobilistica in USA o maggiori esportazioni agroalimentari, ma contiene anche clausole che proteggono il Canada maggiormente rispetto al Nafta, e sembrano in contraddizione con la linea economica di Trump. Ma anche se dal punto di vista sostanziale il nuovo accordo cambia poco, con la rinegoziazione del Nafta Trump può vantare una molto sbandierata promessa elettorale che è stata mantenuta.
Anche la contrapposizione commerciale con la Cina e l’imposizione di dazi elevati su molte importazioni da quel paese sembra seguire interessi più politici che economici, al di là della retorica sul surplus commerciale cinese. Sebbene l'elettore medio americano sia piuttosto indifferente a quello che succede in Cina (o altrove nel mondo), l’elettorato repubblicano tende a essere nazionalista. Porsi quindi in contrapposizione con la Cina può essere elettoralmente conveniente. La Cina, come nuovo gigante economico che insidia il primato americano, è percepita da molti americani in modo piuttosto negativo perché ritenuta sleale nel modo di fare concorrenza, nel sottrarre nuove tecnologie agli USA, e appare come il nuovo nemico.
Il braccio di ferro con la Cina può però avere conseguenze economiche molto serie anche se non immediatamente evidenti, ed è sicuramente malvisto dai settori dell’economia USA che ambiscono a produrre e vendere su quel mercato. È possibile che l’atteggiamento aggressivo del Presidente Trump nei confronti del gigante asiatico sia soprattutto una strategia negoziale, per portare i dirigenti cinesi a cambiare politiche nei confronti delle imprese americane. Tuttavia i risultati di questa strategia non si sono ancora fatti vedere e forse non si avranno a breve. Se si tratta di una strategia attendista di medio-lungo termine, la Cina è probabilmente attrezzata per attendere più degli USA. Nel frattempo l’elettorato americano deve decidere se gli Stati Uniti hanno più da guadagnare o da perdere dal cambio di rotta rispetto al passato dell’attuale amministrazione sui temi del commercio estero, e faranno capire che cosa ne pensano tra pochi giorni nelle urne.

(da ispionline.it )

 

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