Nel 1979 Federico Fellini girò quello che lui definì un filmetto. S’intitolava Prova d’orchestra e metteva alla gogna un’orchestra con i vari strumentisti incapaci di fare appunto il lavoro corale che veniva loro richiesto, bisticciandosi, astraendosi e evitando di seguire qualsiasi indicazione del direttore. Venne interpretato come un grido di allarme e di rigetto della politica italiana incapace di ritrovare il senso del suo stare insieme in uno stato di grave disgregazione (un anno prima era stato assassinato dalle BR Aldo Moro)..
E’ una pellicola che andrebbe riproposta alla più che confusa classe politica attuale. La vicenda della crisi intorno alla norma sulla riforma della prescrizione, frettolosamente introdotta ormai un anno fa da grillini alla ricerca del plauso dei loro fan club giacobini, mette in luce non modi diversi, magari opposti di intendere la soluzione degli impasse del sistema giudiziario italiano, ma un degrado complessivo della nostra cultura istituzionale.
Non è solo questione della valutazione in sé della norma, che è quasi certamente incostituzionale per ragioni che sono state ribadite più volte da autorevoli commentatori. Quel che è peggio è come si sta cercando di gestire il pastrocchio che ci si trova davanti.
Tutto è stato ridotto alla più trita lotta fra fazioni politiche, che mettono le loro convenienze davanti a qualsiasi logica politico-istituzionale. I termini della questione sarebbero in sé banali. Sin dal varo della disgraziata norma, si era detto che si trattava di una specie di extrema ratio che si adottava come spinta per giungere alla riforma del processo penale, perché tutti concordano che il vero nodo si può affrontare soltanto in quella sede. Per la verità ci sarebbe da aggiungere che accanto a quella riforma ci sarebbero da introdurre misure organizzative altrettanto fondamentali: adeguamento degli organici sia in termini di magistrati che di ausiliari (cancellieri e altro), miglioramento delle strutture fisiche disponibili (aule e altro) senza la cui disponibilità diventa poi difficile celebrare i processi.
Di questi problemi sembra che la politica non si interessi e che le varie organizzazioni degli operatori del settore se ne ricordino solo per qualche lamentazione occasionale. Della riforma del codice di procedura penale si è perduta traccia, anche se si continua a dire che verrà presentata. Adesso abbiamo visto avanzare l’ipotesi, che alcuni sostengono già accettata, di fare una commissione di esperti, magistrati, avvocati, studiosi, per prendere in mano il problema. Coi tempi che corrono temiamo faccia la fine della Commissione Quagliariello per le proposte di riforma costituzionale che, costruita col bilancino politico e con numeri assurdi, non produsse che un collage di pareri tra loro contrastanti e già noti che nessuno prese in considerazione.
Quel che colpisce l’osservatore senza pregiudizi è che la norma Bonafede sia oggi difesa da chi come il PD la criticò decisamente quando era all’opposizione. Si badi bene che il partito di Zingaretti non dice di aver cambiato idea, ma semplicemente si arrocca sul tema che non si può far cadere il governo visto che i Cinque Stelle non sono disponibili a mandare in soffitta la loro bandierina. Quando si afferma che Bonafede ha fatto dei passi indietro si mente sapendo di mentire: il ministro accetta semplicemente, anche lui per ragioni del tutto contingenti e strumentali, di cambiare il suo pastrocchio con un altro, cervellotico, privo di logica giuridica, ma che salvaguarda il mantra del ridimensionamento a capocchia della prescrizione.
Già questi comportamenti non sono ciò che serve per ridare dignità alla politica, ma il peggio viene dopo. Per rendere possibile il pateracchio ci si avventura disinvoltamente in manovre parlamentari degne del peggiore tatticismo/opportunismo senza principi. Prima si pensa ad un decreto legge, arretrando solo di fronte all’obiezione che in questo caso è difficile sostenere che ci siano le condizioni di necessità ed urgenza, persino intendendole nei termini ultra-lassisti con cui si sono giustificati sino ad oggi gli utilizzi di questo strumento. Allora si ripiega su un funambolico uso del decreto mille proroghe, anche questo uno strumento inadatto, ma che si pensa offra la possibilità di impedire a Renzi di perseguire nella sua opposizione perché lo si può legare alla questione di fiducia. Così al leader di Italia Viva viene posta l’alternativa fra il far cadere il governo o il lasciar correre il pastrocchio inventato per tenere in piedi l’alleanza fra PD e M5S.
Peggio ancora la ventilata ipotesi di tamponare lo sganciarsi di Italia Viva dall’alleanza di governo ricorrendo ad una ipotetico drappello di “responsabili” da raccattare nelle fila di coloro che temono la fine della legislatura. E’ evidente che questi apporti nuovi non verrebbero infatti da parlamentari che si sono dichiarati consenzienti con la prospettiva della riforma della prescrizione o che hanno maturato una sintonia con la proposta politica sulla base della quale si suppone dovrebbe essere stato sottoscritto il patto di coalizione dei giallorossi. Di conseguenza non si capisce come questa scelta possa portare davvero ad un consolidamento del governo.
Purtroppo in questa faccenda il Partito Democratico e il suo segretario stanno mangiandosi il credito che avevano ottenuto con il successo nelle elezioni in Emilia Romagna. Dimostrarsi un partito opportunista non porta fortuna in politica. Magari per un po’, forse anche per un bel po’ si tira avanti, ma poi tutto si sfascia sotto i piedi. Il richiamo al film di Fellini richiamato all’inizio e alle vicende di quegli anni dovrebbero pure insegnarci qualcosa.
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