Ho visto code ai supermercati. Era tardi, era buio. E il cenone di Natale lontano.
Un uomo gridava lì davanti: “42, 43, 44”. Ma non era un gioco di numeri.
Ho sentito trombette da stadio, canzoni e pentole agitate. Ma no, non giocava la Roma.
Ho sentito cantare l’inno di Mameli e non c’erano i mondiali.
Ho annusato la primavera e il ragù della vicina di casa.
Ho spiato da dietro una tenda: ho scoperto che tutti litigano. E che tutti fanno pace.
Ho visto una bimba felice fare bolle di sapone su un balcone.
Ho visto buffi arcobaleni e ho letto “Andrà tutto bene”.
E poi ho visto sempre meno macchine e sempre meno persone.
Non ho sentito più il rumore del traffico, le voci dei passanti, i clacson. Né il treno passare.
Alla fine non ho visto più nessuno, per le strade non c’era più nessuno.
E ho iniziato a sentire solo sirene di ambulanze. Poi le ho viste correre veloci.
E ho visto facce pallide dietro ai vetri del palazzo di fronte.
Ho visto visi smarriti, increduli, sospesi.
Ho avvertito l’angoscia e l’ansia, la noia e lo sconforto.
E ho iniziato anche io ad avere paura.
Ho pensato a mia madre e a mio padre, agli affetti più cari.
Quando li rivedrò? Avrò detto abbastanza volte ti voglio bene?
Avrò dato i giusti abbracci? Sarò stata generosa di carezze?
Ho pensato ai miei amici, alla pizza, alle risate.
Ho pensato alla leggerezza e alle passeggiate. Al mio motorino.
Ho pensato che avevo voglia di truccarmi e di uscire.
Ho capito che se ti fermi pensi. E che se pensi troppo, dopo stai male.
Ho pensato soprattutto al tempo:
al tempo che passava, al tempo che mancava,
al tempo che avrei voluto e a quello che non sarebbe tornato più.
Ho pensato che tanto avrei fatto e che tanto avevo da fare.
E ho capito che non dovevo piangere,
che non devo piangere: perché guardo, annuso, desidero, sogno.
Non piango e non mi lamento. No, proprio non posso.
Penso a chi non ha più tempo.
E io, io ho ancora da fare.
(apr 2020)
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