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direttore Paolo Pagliaro

Domanda: con quanti morti
siamo disposti a convivere?

di Stefano Zan

(8 maggio 2020) Premesso che trovo la cronaca internazionale dei principali quotidiani negli ultimi due mesi di una pochezza e di una omogeneità (per usare un eufemismo) davvero sorprendente, segno evidente che lavorano da casa su fonti secondarie e su agenzie, mi sembra si possa dire che tutti gli Stati stanno affrontando due questioni politiche di fondo nella gestione della progressiva uscita dalla fase di emergenza di contrasto alla diffusione della pandemia.
La prima questione riguarda il tasso di diffusione del contagio tollerabile con la ripresa, ancorché parziale e graduale, delle attività economiche e della mobilità dei cittadini. E’ evidente a tutti che il contagio e la diffusione del virus sono tutt’altro che terminati così come è altrettanto evidente che il blocco che ha caratterizzato gli ultimi due mesi non è più sostenibile né sul piano economico né su quello sociale. Il punto diventa quello di scegliere, e in questo senso è un’operazione squisitamente politica, quale grado di diffusione del virus è tollerabile con un allentamento delle restrizioni che hanno caratterizzato la fase di emergenza. Anche se la scelta viene in larga misura e con grande ambiguità riversata sui tecnici, in realtà oggi sono i politici che devono decidere quale e quanta diffusione del virus è compatibile con la ripresa. Gli indicatori sono molteplici e non sempre chiari: l’andamento del mitico R zero, il numero dei contagiati, in numero dei ricoverati in ospedale, il numero dei ricoverati in terapia intensiva e, alla fin fine, il numero dei decessi, avendo come convinzione di fondo che in ogni caso il sistema sanitario deve essere in grado di gestire la situazione in maniera diversa e meno improvvisata di quanto non sia accaduto nella prima fase. Alla fin fine la questione si risolve in un unico interrogativo brutale nella sua semplicità: con quanti decessi (al giorno, alla settimana, al mese) siamo disposti a convivere per riprendere una vita il più normale possibile in attesa che la farmacologia dia una risposta definitiva al problema?
Collegata alla prima questione è la seconda. Posto che non è pensabile aprire tutto e subito perché c’è la certezza quasi assoluta che il contagio riprenderebbe immediatamente vigore e raggiungerebbe molto presto le soglie tollerabili prefissate, si apre il problema delle priorità. Quale deve e può essere il percorso progressivo di apertura delle attività economiche ma anche di ripresa della mobilità individuale, della scuola, della vita sociale più in generale? Com’era facilmente immaginabile su questo tema si sono fin da subito scatenate le lobbies di ogni ordine e grado, sia settoriali che territoriali, rivendicando il primato degli interessi dei loro rappresentati, ovviamente nell’interesse più generale del Paese. Evidentemente anche su questo tema non esiste una risposta oggettiva, tecnico-scientifica, capace di individuare in assoluto le priorità. Anzi molto spesso le convincenti priorità economiche si scontrano con altrettanto convincenti rischi sanitari ed è impensabile che siano i tecnici a risolvere la questione perché, ancora una volta, è una questione squisitamente politica. Solo i politici possono decidere con quali priorità e quali gradualità dare avvio alla seconda fase nel rispetto di quella soglia di cui abbiamo parlato in precedenza. Il che significa, implicitamente, decidere anche a priori quali saranno le priorità di un eventuale ulteriore irrigidimento che si dovesse rendere necessario in caso di un aumento non tollerabile dei contagi.
La questione, o meglio, le due questioni politiche mi sembrano molto chiare nella loro semplicità e essenzialità. Non solo. Mi sembrano due questioni sulle quali dovrebbero essere chiamati ad esprimersi i Parlamenti perché si tratta davvero di scelte di fondo che riguardano tutta la collettività che, attraverso i suoi rappresentanti eletti, i quali dovrebbero, dopo averne approfonditamente discusso, assumersene la piena responsabilità di fronte ai cittadini. Non mi pare che nulla di tutto questo stia avvenendo in nessun Paese democratico. La questione, nella piena disponibilità dei governi, viene continuamente rimpallata ad una pletora di enti, organismi, istituzioni che fanno di tutto per rendere meno esplicite e chiare le scelte che comunque devono essere fatte: un numero impressionante di comitati tecnico-scientifici a tutti i livelli di governo, per di più normalmente con una composizione pletorica e spesso ardita quanto a competenze reali; un numero sempre elevato di autorità pubbliche territoriali che hanno competenza in materia sempre pronte a muoversi autonomamente quando non soddisfatte o convinte dalle scelte dei governi; un numero crescente di lobbies organizzate che ricercano direttamente il consenso del pubblico quando non riescono ad ottenere sufficiente udienza dai governi; i partiti politici che in molti casi giocano più per il loro consenso di breve termine che non per la soluzione reale dei problemi; organismi internazionali che non sempre si capisce a che titolo e con quale legittimazione si esprimono, e così via. Tutto questo genera incertezza, ambiguità, opacità che certamente non aiutano ad affrontare in modo consapevole e razionale una situazione assai complessa che interessa direttamente o indirettamente tutti i cittadini. Il fatto che, stando alle fonti disponibili, questo caratterizzi in questa fase tutte le democrazie non solo non è di nessuna consolazione ma pone interrogativi inquietanti sul loro funzionamento nei momenti più difficili che sono chiamate ad affrontare. Pur comprendendo la complessità della situazione resto dell’idea che una formulazione più chiara, esplicita e trasparente delle scelte politiche fondamentali, quelle che abbiamo indicato, che ciascuno Stato deve oggi compiere sarebbe di notevole aiuto per affrontare con maggiore efficacia la cosiddetta fase due.
(da mentepolitica.it )

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