(16 dicembre 2020) Con una lettera a firma congiunta, pubblicata il 13 dicembre scorso sul Corriere della Sera, la ministra dell’interno Lamorgese e i colleghi Di Maio degli Esteri e Bonafede della Giustizia, hanno ricordato il ventennale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (dicembre 2000, Palermo), ritenuta strumento efficace di cooperazione internazionale giudiziaria e di polizia nella lotta al crimine internazionale. Richiamati alcuni strumenti normativi introdotti con la citata Convenzione, i Ministri parlano di “un significativo innalzamento qualitativo” della risposta alle molteplici manifestazioni della criminalità organizzata con l’impegno che verrà preso, in occasione del XIV Congresso sulla prevenzione del crimine e la giustizia che si terrà a Kyoto (marzo 2021), di “..un ulteriore rafforzamento della cooperazione (..) un contrasto senza tregua alle mafie..”, un fronte in cui “lo Stato italiano è in prima linea”.
Le buone intenzioni, come è capitato più volte di rilevare in passato, anche in questa circostanza ci sono tutte, ma non si possono dimenticare le recenti dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, secondo cui “la politica non ha mai considerata prioritaria la lotta alle mafie”. E Gratteri è un magistrato che di mafie, in particolare di quella calabrese, la più potente e pericolosa, è grande esperto, protagonista di numerose importanti inchieste giudiziarie di rilevanza nazionale e internazionale.
Ci si chiede, poi, come sia stato possibile, nonostante le asserite “pesanti sconfitte alle mafie”, la loro proliferazione e diffusione ( in particolare la ‘ndrangheta) non solo su tutto il territorio nazionale, ma anche in almeno una trentina di Stati europei ed extraeuropei. Imprese mafiose che, con i proventi stimati derivati dal commercio degli stupefacenti, dalla prostituzione e dal contrabbando di tabacchi lavorati, contribuiscono, sin dal settembre 2014 ( con una sconcertante decisione dell’UE che lasciava questa possibilità ai singoli istituti di statistica), a determinare il Pil. Insomma, “la mafia (..) sarebbe una componente della ricchezza nazionale” come sottolineava nella sua relazione di oltre 500 pagine, di fine legislatura (febbraio 2018) la Commissione Parlamentare antimafia, auspicando “una profonda riflessione da parte della politica su quella che è una “forma di legalizzazione statistica” dei proventi mafiosi”. Riflessione mai fatta, naturalmente, e così siamo al paradosso che ogni azione di contrasto al narcotraffico con il sequestro di droghe è, di fatto, come se fosse un atto contro l’economia nazionale.
Se, poi, si vuole vedere la realtà criminale mafiosa (anche quella straniera) alla luce delle tante importanti indagini degli ultimi anni, si potrà rilevare come le battaglie vinte non hanno minimamente scosso le mafie – su tutte la ‘ndrangheta - e la grande criminalità, il loro profondo radicamento sui territori, la potenza finanziaria, la loro capacità di essere anti-Stato senza mettersi, però, in aperta competizione, ma infiltrandosi nei suoi apparati vitali. Una realtà criminale molto triste, messa bene in evidenza anche dalle più recenti relazioni della DIA presentate al Parlamento, l’ultima delle quali proprio dalla Lamorgese, nel giugno scorso. Lottare contro le mafie non vuol dire solo reprimere ma anche costruire una maggiore giustizia sociale e, soprattutto, bonificare la politica dalle mafie. E su questo punto sono troppi quelli che fanno ancora orecchie da mercante.
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