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Kabul e la trasformazione
delle guerre asimmetriche

di Michele Mezza

Con malcelato compiacimento, intere schiere di componenti di ogni versione di una sinistra malconcia e marginale contemplano la rovinosa ritirata americana dall’Afghanistan, scaricando le frustrazioni accumulate fin dal fatidico 1989. La scena, del resto, si presta ai più amari e spietati sarcasmi, quando si vede la superpotenza ripiegare addirittura ventiquattr’ore ore prima dell’ultimatum fissato con perfida determinazione dai talebani. La domanda, ovviamente, è cosa comporti realmente questo smacco strategico per l’equilibrio del mondo e chi potrà mai avvantaggiarsene; infine, per i superstiti della discussione, la sinistra potrà mai utilizzare una ripresa della dinamica politica per riproporsi come soggetto e non solo come tifoso?
La chiave di lettura dello scenario non mi sembra quella della tecnica militare, su cui stormi di aspiranti Napoleone si stanno dilettando. Certo, vedere barbuti ragazzotti su motociclette o furgoncini cingere d’assedio le truppe tecnologicamente equipaggiate dei marines fa il suo effetto. Ma non sarebbe certo la prima volta. Dall’invincibile armata persiana di Dario, fino all’assedio di Stalingrado e alle trappole in bambù nella giungla vietnamita, di guerre asimmetriche ne abbiamo viste, e sempre con esito pessimo per gli ingombranti giganti accerchiati dai lillipuziani. Oggi però siamo nel pieno del secolo della rete, con una relazione, punto a punto, strettissima, che connette ogni individuo all’altro in qualsiasi campo agisca, instaurando una promiscuità inedita persino nella guerra, in cui i due nemici si parlano continuamente, mirando a sgretolare le solidarietà e le persuasioni dell’altro, prima ancora dei suoi sistemi d’arma.
La lente per dare una fisionomia credibile e razionale a quanto è accaduto credo sia rintracciabile in un filone di riflessione sulla strategia sociale che ha preso forma dopo l’11 settembre, e in particolar modo dopo la guerra del 2006 in Libano, l’unica che Israele non abbia vinto nei confronti degli arabi. Su questa eccezione ragionò John Arquilla, uno dei più lucidi analisti del Pentagono, che fu poi consigliere, inascoltato, di Obama: “Hezbollah accede a saperi e competenze tramite la rete. Così la potenza militare viene disintermediata dagli Stati nazionali […]. Il mondo è entrato in un’era di guerriglia irregolare perpetua […] guidata dalla forma del network che costituisce una minaccia per il potere americano. E per battere un network ci vuole un altro network”. La nuova geometria bellica venne poi approfondita dal direttore della Brookings Institution, Peter W. Singer, in una ricerca svolta proprio per conto del team dell’allora debuttante candidato alle presidenziali Barack Obama, che chiude affermando: “Siamo in una situazione in cui gruppi privati possono disporre di grandi saperi e poteri tecnologici prima riservati agli Stati. E oggi non abbiamo risposte adeguate a questo tipo di nuovo conflitto”.
Era scritto già lì l’epilogo della guerra afghana. Con un elemento decisivo, che permette di comprendere il senso della vittoria dei lillipuziani. La miniaturizzazione della forza tecnologica amplia la gamma delle opzioni dei privati e restringe quella degli Stati. Il dettaglio lo spiega il capo di stato maggiore russo, Valerij Gerasimov, dopo le rivolte in Ucraina e Bielorussia nel 2013, inequivocabilmente fomentate dai social network atlantici. Il comandante delle armate russe pubblica sul “Military-Industrial Courier” un testo circa la guerra asimmetrica (o guerra ibrida), intitolato The Value of Science is in the Foresight: New Challenges Demand Rethinking the Forms and Methods of Carrying out Combat Operations, che fissa i nuovi paletti della strategia militare del Cremlino: “Nel XXI secolo abbiamo visto nascere la tendenza a un confine sempre più sfocato tra la guerra e la pace: le guerre non vengono più dichiarate e, una volta cominciate, procedono secondo un modello sconosciuto”. Le guerre non dichiarate sono appunto i conflitti degli algoritmi.
Seguendo questa dottrina, in poco tempo, i russi si pongono al centro del nuovo scacchiere digitale con la potenza di fuoco dei propri hacker, ribaltando la capacità di mettere sotto scacco l’avversario, come Hillary Clinton ha potuto testimoniare riguardo alle elezioni presidenziali vinte da Trump. In entrambi i casi – gli Hezbollah contro Israele e Cambridge Analytica contro la Clinton –, così come oggi i talebani in Afghanistan, il filo conduttore, che neutralizza la soverchiante potenza degli apparati americani di attacco, riguarda l’indifferenza per i danni sociali.  In una guerra microelettronica, nella quale conta la mobilità e l’invisibilità, se uno dei due contendenti non ha alcuna preoccupazione per i contesti territoriali e sociali in cui opera – dando per scontato che la reazione avversaria colpirà popolazioni la cui sofferenza non incide sui centri di comando – i più grandi sono chiaramente penalizzati. Se, come spiega Gerasimov, a decidere l’equilibrio militare sono i livelli psicologici dei contesti sociali dell’avversario (leggi: del consenso elettorale dei gruppi dirigenti che conducono la guerra), chi non ha questa preoccupazione – e né Hezbollah né Putin ce l’hanno, tanto meno le torme degli attempati “studenti coranici” –, allora è evidente che la contesa diventa non tanto asimmetrica, quanto piuttosto ibrida, come più correttamente la definisce Arquilla.
La guerra in Vietnam fu un vero scontro asimmetrico, in cui un esercito di occupazione veniva combattuto da reti sociali che dovevano comunque proteggere la popolazione. Stessa cosa nei territori occupati da Israele, dove sia l’Olp sia Hamas hanno il limite di non potere, oltre un certo limite, esporre la comunità che li appoggia alla reazione del nemico. Ma ciò non funziona per quelli che non hanno legami – come il partito filoiraniano degli Hezbollah in Libano, o le armate dei talebani – né di solidarietà né di appartenenza con le popolazioni, in nessun caso un vincolo, usate semmai come schermo. Gli Stati Uniti misurano così il limite di una contrapposizione senza bersagli. Lo stesso capitò all’Armata rossa del generale Gromov negli anni Ottanta, quando i mujahidin le suonarono all’Urss di Breznev; e potrebbe capitare ancora alla baldanzosa potenza cinese che nella regione del Xinjiang degli uiguri islamici, confinante con l’Afghanistan, già comincia a prevedere problemi.
La lezione afghana va riportata storicamente al “grande gioco” che nel XIX secolo fu la grande scuola dei servizi segreti di tutto il mondo: come incrociare strategie e potenze su uno scacchiere marginale, quale rimane l’Afghanistan, pensando al centro della scena che rimane quella del mercato tecnologico planetario. L’interrogativo riguarda, da un lato, l’assestamento del pendolo, dopo la sbandata di queste settimane, in una realtà come quella americana dove la potenza sembra sempre più lontana dagli spazi pubblici, sempre più concentrata in entità private che stanno separando il proprio destino da quello del proprio Stato, come i grandi monopoli digitali dimostrano; e, dall’altro lato, la Cina che si ritrova ora con promettenti scenari internazionali ma con difficoltà economiche interne, in cui debito e dinamica dello sviluppo diventano problematici, spingendo la leadership del Partito comunista a ripiegare su un rallentamento più egualitario della sfrenata corsa economica. Un intrigo che vede la totale assenza di forze europee, e soprattutto l’assoluto mutismo di una cultura di sinistra che non trova interlocutori e scenari internazionali con cui interagire, non riuscendo, nel dipanarsi delle energie sociali e tecnologiche in campo, a individuare una ragione e una missione che ne giustifichi una nuova alterità progettuale, chiudendosi così in una stanca difesa di quanto conquistato fino a oggi.
(da terzogiornale.it)

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