Nel fiume di notizie che scorre senza sosta nel greto ancora torbido della pandemia, il dubbio, fastidio che secondo Voltaire risparmiava solo gli imbecilli, dovrebbe consigliare qualche pausa di utile e pacata riflessione. Soprattutto in un paese come il nostro che tra le sue virtù non può includere la propensione –spesso anche la volontà- di conservare la memoria di ciò che ha fatto, del perché e di come lo ha fatto. Con conseguente tendenza, non solo a dimenticare, ma a sostenere il contrario di ciò che si è detto e fatto, non importa quanto tempo fa, incrementando la confusione, superfluo e pericoloso additivo di cui non si avverte il bisogno nel passaggio stretto in cui stiamo transitando.
Proprio il dubbio dovrebbe indurci a maggiore accortezza nell’affrontare problemi che in altri tempi sarebbero stati e sono stati visti come normali mentre oggi vengono guardati come una fastidiosa e ingiusta imposizione. Il riferimento è all’adozione di forme di smart working di cui si discute in questi giorni come misura da adottare tra le altre per tagliare la strada al virus. Una volta accettata l’idea che esso non è assimilabile alla dad sulla quale sono fin troppo note le controindicazioni, resta da capire il perché si sia creato un fronte ostile a un meccanismo che con ogni evidenza è mirato a garantire una continuità produttiva dell’industria e dei servizi.
Eppure ci fu un tempo, collocabile nell’ultima decade del 900, in cui lo smart working sembrava dover essere la strada maestra da seguire verso un nuovo modo di lavorare. Sponsorizzato e spiegato da autorevoli esperti come metodo finalizzato a obiettivi di flessibilità, responsabilizzazione, orientamento ai risultati era diventato la pietra miliare, il punto di svolta verso un nuovo modello di vita. E guai a mettersi di traverso, pena la certezza di finire nella file dei reprobi, retrogradi nostalgici del passato e nemici della modernità. Il futuro sembrava segnato da questa novità vista con un entusiasmo tale da mettere in ombra ogni dubbio sui possibili rischi legati a una parcellizzazione del lavoro che tra le altre cose avrebbe cancellato il taylorismo che era stata la cifra del lavoro di massa del secolo passato.
E allora? Per quale motivo ciò che era buono vent’anni fa è oggi guardato con un sospetto che si spinge fino al rifiuto? La risposta potrebbe essere quella delle diverse situazioni per le quali viene proposto lo smart working, ovvero il cambiamento come scelta contrapposto al cambiamento come necessità. Perché un conto è pensare di organizzare la propria attività con regole non coercitive, un conto farlo in piena bufera pandemica. Se però si presta attenzione alla necessità di superare questa bufera con l’introduzione di meccanismi che potrebbero essere e si spera siano temporanei si fatica a spiegare una resistenza a queste misure. In fondo è anche uno dei tanti accorgimenti che il governo sta provando a prendere per limitare il diffondersi dei contagi ed evitare la paralisi del paese. E almeno su questo non dovrebbero ingenerarsi sospetti che non siano dettati dal vizio della politica a mettere tutto in discussione per qualche pugno di voti, cosa che si avvista nel controluce di questa vigilia di elezione del presidente della Repubblica con annessa la sopravvivenza del governo.
A meno che -ed ecco legittimato il dubbio- dietro le motivazioni del rifiuto, che si possono sempre esaminare e aggiustare, non finisca col prevalere quell’abitudine tutta italiana a dichiararsi favorevoli al cambiamento purché tutto rimanga gattopardescamente come prima. Nel qual caso saremmo alla consueta e inestirpabile furbizia che con i tempi che corrono non avrebbe la benché minima giustificazione. In ogni caso non si dovrà attendere tanto tempo per capirlo.