Di quella riunione mattutina, che molti chiamavano scherzosamente messa cantata, Eugenio Scalfari si faceva un vanto. Nei giornali italiani che faticavano a uscire dallo stile gerarchico e paludato che li aveva sempre contraddistinti, quel dibattito aperto sull’edizione appena uscita e su quella da preparare per il giorno successivo era la novità introdotta da Repubblica sin dalla sua nascita nel gennaio del 1976. “In questa sede possono prendere tutti la parola” annunciava Scalfari dopo una sua non lunga introduzione. E a questo punto in un angolo del tavolo, chi gli era vicino, poteva ascoltare il sommesso commento di Beniamino Placido, acuto e fine critico letterario e televisivo. Appena un brusio: “Purché abbia qualcosa da dire”. Quella chiosa, che non trasmetteva un pensiero snob ma era un pacato suggerimento, mi è tornata alla mente in questi giorni nell’imperversare di interviste, salotti televisivi, collegamenti e studi aperti sull’Ucraina.
Da quando ha avuto inizio l’aggressione voluta da Putin col suo drammatico seguito di morte e distruzione e senza sapere se, quando e come finirà, l’argomento continua a tenere banco. Ed è giusto che sia così. Meno accettabile, in qualche caso disgustoso, il metodo e, soprattutto, la scelta degli interlocutori che, con la dovuta accezione di commentatori che dimostrano di avere titoli e preparazione per parlare, sono la rappresentazione triste e truffaldina di chi apre la bocca per ascoltarsi essendo assai improbabile che quello che dice possa essere di qualche interesse per gli ascoltatori. I quali spesso non hanno scelta nel profluvio di analisi senza capo né coda, condite con palesi bugie, rimandi a ignoti e non verificabili fatti, uso sconsiderato di voci rimbalzate attraverso i social, rimpianti per “la spinta propulsiva” dell’Urss e demonizzazione senza appello per la Russia di oggi da San Pietroburgo a Vladivostok.
Di tutto di più, spesso alla ricerca di qualche punto di audience per il quale, s’intende, la scorciatoia è quella della rissa tra ospiti che si danno sulla voce in tre o quattro mentre chi li ha invitati finge di mettere ordine in un disordine che è mentale ancor prima che vocale. Sovente in assenza di un minimo di rispetto per le immagini che sugli schermi televisivi mostrano, senza bisogno di alcun commento, quanto sta accadendo nelle martoriate città dell’Ucraina. E senza neppure andare per un attimo col pensiero a Gino Strada che riferendosi alla lunga tragedia dell’Afghanistan ci ricordava che “la guerra non è mai la soluzione, ma sempre il problema”.
Un problema di cui non si può discutere come se si parlasse di una partita di calcio, a secco di competenze e non coltivando il dubbio che non deve mai essere disgiunto dalle incertezze. A proposito del quale, per chi voglia farne tesoro, è sufficiente leggere quanto scrise Gaetano Salvemini nella prefazione al diario di Carlo Rosselli del 1938 edito vent’anni dopo da Einaudi col titolo “Oggi in Spagna domani in Italia”. “Quando pensiamo e soppesiamo le forze a contrasto, e cerchiamo di calcolare quale direzione la loro risultante seguirà nel futuro, noi dobbiamo sempre ricordarci che tutti i nostri calcoli sono assai incerti, che un niente può capovolgere quando meno ce l’aspettiamo la nostra previsione, e che nove volte su dieci quel che avviene è quello che nessuno si aspettava”. Mentre le certezze contrabbandate da un quidam de populo, un sin vergüenza come direbbero gli spagnoli, possono ignorare Salvemini ma restano comunque un flatus vocis di cui si dovrebbe e si potrebbe fare a meno. Ferma restando la libertà di parlare “per chi abbia qualcosa da dire.