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Cosa unisce i candidati
premiati dagli elettori

di Paolo Pombeni

La lettura dei dati elettorali è sempre complicata, ma lo è specialmente quella che deve estrarre dei trend nazionali da competizioni amministrative inevitabilmente caratterizzate dai fattori locali. L’esame tecnico lo lasciamo agli specialisti, noi ci limitiamo a valutare le suggestioni che emergono da quanto è accaduto domenica 12 giugno.

Il primo dato che ci colpisce è il calo della voglia di partecipazione politica. Quasi drammatico nel caso dei referendum (mal impostati e peggio gestiti), ma notevole anche per quanto riguarda realtà locali, grandi, medie e piccole, dove sostanzialmente quasi la metà degli elettori manifestano indifferenza circa il possibile risultato. Temiamo che stia montando sempre più la convinzione in larga parte dei cittadini che “questo o quello per me pari sono”, tanto poi i problemi non si risolvono. È un po’ qualunquistico dirlo, ma nella ricezione della gente Roma era invasa dai rifiuti e dai cinghiali con la Raggi e la situazione è più o meno uguale con Gualtieri. I due personaggi sono molto diversi, ma una realtà degradata non si lascia domare.
I partiti hanno fatto uno sforzo modesto per riportare i confronti per i sindaci nell’alveo di impostazioni “nazionali”, il che è abbastanza curioso visto che i comuni saranno enti chiave per la gestione del PNRR. Non c’è un candidato sindaco di qualche rilievo che si possa attribuire alla cerchia che conta delle persone che attraverso i vertici delle forze politiche orientano la politica di questo paese. E dire che di questo ci sarebbe gran bisogno, viste le condizioni in cui ci troviamo e soprattutto quelle che si profilano all’orizzonte.
Se dobbiamo esporre la nostra lettura, è che i partiti vincono dove non presentano personaggi attribuibili al teatrino politico che va continuamente in onda. Ci sono casi molto evidenti come Bucci a Genova, Tomasi a Verona, Giordani a Padova, Guerra a Parma, ma lo stesso Lagalla a Palermo, tutti casi dove le liste dei sindaci sono a quote molto vicine e anche superiori a quelle dei partiti che li sostengono. Se vogliamo buttarla sull’analisi politica andiamo verso la cosiddetta “americanizzazione dei partiti”, perché negli USA, al contrario del nostro tradizionale modello europeo dove i partiti candidano i loro quadri, le forze politiche sono macchine elettorali che si scelgono candidati nel più generale contesto delle classi dirigenti senza badare più di tanto alle loro storie di “militanza partitica”.
Queste tendenze si affermeranno ulteriormente? Crediamo ci sia una difficoltà per quel che riguarda le prossime elezioni politiche per due ragioni. La prima è che i quadri dei partiti sono poco disposti a lasciar spazio a persone “esterne” che toglierebbero loro una fonte di reddito (molti sono privi di alternative per questo), quando, fra il resto, il numero dei posti disponibili si è fortemente ridotto a causa del taglio del numero dei parlamentari. La seconda è che la spinta a puntare sul candidato giusto può essere fortissima quando si tratta di cariche monocratiche che necessitano di amplissimo consenso (come è il caso dei sindaci), mentre diventa molto debole quando si corre per seggi dove in fondo l’attrattiva sugli elettori delle “personalità” è piuttosto relativa.
Ciò spiega perché dalle urne ogni componente cerca di trarre semplicemente il messaggio che si è combattuta la battaglia fra le coalizioni e che su quello bisogna appuntare l’attenzione. Fra gli addetti ai lavori ci si soffermerà di più a valutare il contributo reale che ogni componente può apportare, ma sempre nell’ottica più o meno dell’ammucchiata. In questo caso il vantaggio del centrodestra è che la convivenza delle componenti attuali non comporta un problema di tenuta della coalizione: certo ci saranno poi i problemi di dividersi le spoglie, ma alla fine tutti possono stare insieme in vista di una conquista del potere dopo la quale si farà quella divisione.
Diverso è per il centrosinistra, perché qui se metti dentro qualcuno, qualcun altro non entrerà nell’ammucchiata. La componente del riformismo centrista non può mantenere i suoi spazi trovandosi a fianco dei Cinque Stelle e viceversa, per sorvolare sul problema dell’estrema sinistra. Per risolvere questo dilemma sarebbe necessario che Letta e i teorici del “campo largo” riuscissero a spiegare perché un riformista razionale dovrebbe essere felice di stare insieme a chi gli impedirà di realizzare dei progetti coi piedi per terra opponendogli utopie a ruota libera. Se si dovessero considerare dei test gli andamenti delle amministrative dovremmo concludere che quella metà di elettorato che si è recata alle urne non ha affatto premiato i partiti populisti, di destra e di sinistra, ma quelli sperano sempre nel risveglio dell’altra metà che astrattamente attribuiscono favorevole a loro solo che si riesca a richiamarla in servizio.
Come secondo noi ha dimostrato il referendum, l’astensionismo non è una fuga dalla politica per opposizione alla sua decadenza, ma è un disinteresse e forse anche una paura verso la fatica dell’impegno a lavorare per costruire un futuro capace di accettare i cambiamenti in atto. Si tratta di qualcosa di cui dovremmo preoccuparci molto, visto quel che ci attende e considerando le difficoltà verso cui andrà il governo Draghi che non ci pare esca molto rafforzato dalle suggestioni che ci offre la visione dell’andamento delle amministrative (peraltro non ancora concluse, perché i ballottaggi non sono una appendice insignificante). 

(da mentepolitica.it ) 

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