Non ho nulla contro i dialetti quando essi siano espressioni delle opere di Trilussa, Porta, De Filippo e altri autori entrati a pieno titolo nella letteratura italiana. Meno che mai quando essi siano il risultato di uno stato di bisogno che ha impedito, nelle periferie urbane, nelle campagne e in aree montane, una sia pur limitata padronanza della lingua nazionale. Ho avvertito invece un senso di ribrezzo, accompagnato a qualche non tanto malizioso retropensiero politico, quando ho letto sul display per il pagamento con carta di alcuni distributori di carburante le indicazioni del maccanismo scritte in piemontese, lombardo, veneto e suppongo altri dialetti dei tanti che abbondano nella nostra Penisola.
Credevo fosse uno scherzo ma mi ha fatto ricredere il sorriso di quasi compatimento di un signore, alle mie spalle, che mi spiegò con aria divertita l’arcano soffermandosi sull’utilità di questa innovazione. E provvedendo a tradurre (anche se non c’era alcuna necessità) il messaggio tradotto, a seguire, in altre lingue straniere. Niente di male si direbbe se non fosse per il ripescaggio più rozzo e provinciale del dialetto due decenni dopo l’entrata nel ventunesimo secolo con una ostentazione sgradevole del ritorno ai bei tempi antichi.
Ho provato subito a immaginare lo sgomento di un turista straniero seppure attenuato dalla traduzione. Ma la cosa che mi ha, diciamo così, incuriosito è stata quella di immaginare chi possa avere avuto questa idea luminosa oltre mezzo secolo dopo i corsi televisivi per imparare a leggere e scrivere, (la trasmissione era “Non è mai troppo tardi”) del maestro Alberto Manzi. Ora è evidente che se il dialetto, per chi conosce l’italiano, è una ricchezza ma se è solo questo il modo di esprimersi è un limite che tante generazioni hanno pagato a caro prezzo prima dell’introduzione della scuola dell’obbligo. Diceva Ennio Flaiano che “i popoli in ascesa non hanno dialetti” e non si riferiva soltanto agli effetti dell’ascensore sociale che avrebbe dovuto accorciare la distanza tra ricchi e poveri. Prima di lui, oltre un secolo fa, un altro personaggio, un sardo dall’inflessione isolana inconfondibile, come Antonio Gramsci aveva sottolineato la necessità di apprendere la lingua nazionale, ricordando che i padroni la conoscevano bene, traendone naturalmente vantaggi.
Il fatto che qualcuno possa avere pensato a questa inutile regressione è inquietante perché trasmette l’idea di un paese che guarda indietro o, ancora peggio, strizza l’occhio all’ incultura come qualcosa da coltivare e vezzeggiare a fini esclusivamente elettorali. Se poi a farlo sono alcune società petrolifere partecipate dallo stato la cosa risulta ancor più meschina e riprovevole. Con buona pace di quanti trovano divertente il ricorso al dialetto in un paese che è agli ultimi posti in Europa per la conoscenza delle lingue straniere. Forse anche di quella italiana.