Nelle precoci convulsioni del nuovo governo s’è inserita una vecchia zeppa che si ripropone periodicamente da decenni con la regolarità dell’avvicendarsi delle stagioni. Trattasi del cuneo fiscale, che poi vuol dire quanto costa un dipendente al datore di lavoro e quanto lo stesso lavoratore riceve al netto. Ora se uno pensa al rifiuto opposto dagli imprenditori a questo che dovrebbe essere un automatismo indolore e che già da tempo è in atto in molti paesi civili non preceduto da ricorrenti guerre di religione, difficilmente può sottrarsi al sospetto che o trattasi d’altro (e certamente questo altro c’è, eccome) o è una rara forma di ottusità (e anche questa deve esserci in certi strati del padronato nostalgico dei tempi in cui il sindacato era la triplice e la concertazione una pratica musicale).
Se infatti si tratta di dirottare in direzione delle tasche dei lavoratori senza che ciò includa o nasconda un qualche vantaggio finanziario per le imprese, anzi andando in direzione di uno sgravio dei costi, non si riesce a veramente a comprendere i distinguo, le obiezioni, i calcoli, i timori, le alte grida delle medesime imprese. E soprattutto i tentativi di trasformare un meccanismo che dovrebbe avere una sua costanza contrattuale in un qualche benefit o dazione affidata una tantum al buon cuore come se le famiglie dei dipendenti dovessero mangiare a Natale o a qualche altra festività per poi tornare a tirare la cinghia il mese successivo. Salvo il persistere di un padronato (difficile chiamarlo con un termine meno arcaico del suo comportamento) che coltivi, ufficialmente inespressa, quella paura che porta inesorabilmente verso l’ottusità.
Ad evitare la quale (qualora fosse la sola molla del dissenso) basterebbe un semplice ragionamento di buon senso che tradotto in termini pratici suona così: più soldi in busta paga e conseguente incremento dei consumi con accelerazione della ripresa. Sempre che non si pensi che quei sodi in più in busta paga siano tanti e tali da indurre il beneficiario a metterli al sicuro in qualche paradiso fiscale. Nella provincia profonda qualche imprenditore, non necessariamente di vecchia generazione lo pensa ancora, ma quelli che contano e che siedono al tavolo con le istituzioni e i sindacati sono consapevoli che le cose stanno diversamente. Lo hanno sempre saputo e se sono riusciti a tenere duro è perché i governi, senza distinzione di colore , glielo hanno permesse accontentandosi di inconfessabili appoggi o forse qualcosa di più. Tanto un economista disposto a trovare una spiegazione all’occorrenza si trova sempre.
E il cuneo fiscale continuerà a sopravvivere come totem da comizio, talkshow, faccia a faccia (senza vergogna) fino al chiacchiericcio da bar di quartiere. Uno di quei temi ai quale fare un accenno per poi trasferirli con disinvoltura all’archivio. Qualcosa che richiama alla memoria i vecchi contratti dei metalmeccanici del secolo scorso, quelli che puntualmente in coda recavano quattro righe in si ricordava che c’era anche la questione dei meridionali e delle donne. Con la certezza che nessuno lo avrebbe ricordato.