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Le tre maggioranze di Giorgia Meloni

di Luca Tentoni

Giorgia Meloni ha tratto molti insegnamenti dalle vicende del governo gialloverde del 2018-'19. In primo luogo, l'attuale legge di bilancio non è - come quella di allora - concepita per entrare in collisione con l'Unione europea (a suo tempo la ritirata fu precipitosa e anche un po' ingloriosa). In secondo luogo, soprattutto, la leader di Fratelli d'Italia ha capito che non può lasciare il campo a Salvini come fecero un incolore Conte (allora semplice "notaio del programma") e un neofita un po' spaesato come Di Maio. Inoltre, la premier si deve essere ricordata del periodo in cui Renzi costruì intorno alla maggioranza del suo governo un "secondo anello", quello costituito dall'effimera coalizione sulla riforma costituzionale (che comprendeva Forza Italia, allora all'opposizione). Il leader toscano usò la seconda coalizione per blindare ulteriormente la prima.
La Meloni ha capito così bene la lezione che ora di maggioranze ne ha addirittura tre: quella ufficiale, scaturita dalla vittoria alle elezioni del 25 settembre (con Lega e FI partner minori ma pur sempre capaci di creare problemi); quella atlantista e filoucraina con Azione-Iv e Pd (che è limitata a questo tema, però toglie di mezzo le tentazioni pacifiste o cripto-filorusse leghiste e di settori forzisti); quella molto embrionale sull'economia (con Calenda si tratta, magari su poche cose, ma un dialogo c'è e può tornare utile ad entrambi: al leader di Azione per rivendicare eventuali concessioni che Forza Italia non ha avuto e alla premier per dimostrare agli alleati che oltre la coalizione di destra - come nel caso La Russa - i numeri ci sono).
A pensarci meglio, poi, cosa resta dell'azione di governo se si mettono al sicuro la politica estera e qualcosa della politica economica? Le battaglie identitarie, ma su quelle la Meloni non si fa scavalcare da Salvini. Il quale ha capito (forse) che è bene non fare troppi annunci, se non si è certi che verranno mantenuti: vale per il contante, che non salirà a diecimila euro come detto dal capo leghista ma a cinquemila e potrebbe valere per il pos (può darsi che ci sia più di qualcuno in giro che gradisce pagare il caffè con la carta senza essere un cretino e qualcuno che la accetta senza strapparsi i capelli).
Inoltre, la Meloni si espone in prima persona per difendere e promuovere la linea del governo: lo fa senza intermediari e senza lasciare la parola e lo spazio ai suoi alleati. Invece Salvini, nel 2018-'19, aveva a che fare con un presidente del Consiglio mediaticamente poco appariscente e con un vicepresidente (Di Maio) che era riuscito a far passare presso l'opinione pubblica solo il messaggio dell'approvazione del reddito di cittadinanza (che, come si è visto, premeva soprattutto al Sud, dove infatti la Lega nel '19 ha ottenuto parecchi voti ma meno che nel resto d'Italia, classificandosi seconda dopo il M5s nelle circoscrizioni meridionale e insulare). Certo, la "tripla maggioranza" non deve illudere la leader di FdI: il percorso del governo non è facile. I prossimi mesi potrebbero essere duri, anche perché tenere a bada Lega e FI è necessario, ma per farlo si impedisce loro di riguadagnare consensi (e quei voti sono finiti alla Meloni, che non può regalarli per assicurarsi la pace a Palazzo Chigi). A un certo punto, governare con due alleati scontenti potrebbe diventare un problema. Ecco perché ci sono le "maggioranze parallele".
Ma su queste ultime, che sono occasionali e tematiche, è bene fare affidamento solo in funzione di deterrenza verso Salvini e Berlusconi. Altrimenti resta la vera arma che la Meloni può usare: le elezioni anticipate. Fino a che il Pd è nel guado, può funzionare, ma se i democratici ricostituiscono un "campo" più o meno largo, l'arma si scarica, perché il sistema torna competitivo.
(da www.mentepolitica.it)

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