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Morto un lavoro non se ne fa un altro

Morto un lavoro non se ne fa un altro

di Salvatore Tropea

A cantare le lodi di quella rivoluzione che avrebbe rapidamente cancellato un secolo di lotte sindacali per la creazione di una coscienza collettiva e solidale dei lavoratori scesero in campo fior di esperti internazionali, sociologi e intellettuali di quelli che intervengono su ogni tema dell’umano sapere. E tutti a spiegarci che il tempo dell’occupazione fissa era tramontato e che eravamo felicemente entrati nella nuova era in cui lasciato un lavoro se ne sarebbe trovato a stretto giro un altro e anche migliore di quello abbandonato.
Nell’epifania del Secolo breve questa tendenza, che a tratti prese anche le sembianze di una moda trend e contagiosa, diventò una sorta di mito col quale ci si consegnava alla modernità di un futuro che non era poi così chiaro e definito. Il cambio di attività, magari con l’abbandono dell’ufficio o della fabbrica per un ritiro nella comodità del lavoro domiciliare, era un’aspirazione soprattutto delle giovani generazioni.
I giornali non risparmiavano le narrazioni dettagliate di queste esperienze dai risultati mirabolanti e tutto sembrava procedere in quella felice direzione. Poi però le cose presero ad andare in tutt’altro modo e il primo ventennio del nuovo secolo si è incaricato di mostrare inesorabilmente i limiti e per alcuni aspetti l’inganno e gli effetti devastanti di quella svolta con la complicità di più crisi finanziarie di portata mondiale sulle quali è piombato infine il macigno del covid in tutte le sue versioni.
Si poteva prevedere tutto questo? Certamente che no. Però si poteva per lo meno tenere il fenomeno sotto osservazione, cercare di intercettare i trucchi, attrezzarsi per contenere gli effetti negativi che pure si intravedevano. E invece finì che a casa ci andarono e in molti non a lavorare o ad aspettare una nuova occupazione ma per restarci da disoccupati e da precari cronici affacciati sull’abisso della povertà. Contro i quali il governo di centro destra propone ora soluzioni che accentuano la sperequazione e saldano qualche conto elettorale allontanando la prospettiva di una ripresa di cui una sinistra in ordine sparso cerca di fare un cavallo di battaglia. Tre milioni di poveri secondo le stime Istat confusi con un numero imprecisabile di precari non sono una deriva che porta verso la ripresa. Perché un cinquantenne che perde il lavoro è condannato a diventare un disoccupato, o una delle ombre che fanno la fila a occhi bassi davanti alle sedi della Caritas. E questo non è certo un segnale di ripresa. Come non lo è il giovane che andrà in banca per un mutuo dicendo di avere un lavoro temporaneo e si sentirà più o meno garbatamente rispondere che la sia richiesta non può essere accolta. E perciò lui non potrà comprare la casa che aveva messo in progetto per sposarsi e resterà inchiodato in famiglia a tempo indeterminato.
Proprio così. Il mito del passare da un lavoro all’altro, da una città all’altra, da un’abitazione a un’altra, in qualche caso da un matrimonio a un altro, è soltanto il ricordo di un tempo in cui un modello di vita stava per essere scalzato da un altro che non era quello descritto dagli ottimisti a oltranza o dai sognatori non sempre disinteressati.

(© 9Colonne - citare la fonte)